Cultura

E adesso... pubblicità!

  • Abbonati
  • Accedi
dalla belle époque a oggi

E adesso... pubblicità!

È stato anche in Italia uno specchio di certi usi e costumi, di esperienze collettive e di comportamenti individuali, di suggestioni psicologiche e convenzioni sociali e, in pari tempo, uno dei fattori che hanno contribuito a creare o a condizionare queste componenti dell’universo quotidiano, attraverso l’influenza esercitata in diversa misura su modi di pensare e di vedere, scelte di mercato e orientamenti politici, sentimenti e subculture della gente comune. Ma finora non contavamo una sintesi storica complessiva della pubblicità. Uno studioso come Ferdinando Fasce, da tempocome uno dei principali specialisti nell’analisi del fenomeno, e due ricercatrici (Elisabetta Bini e Bianca Gaudenzi), hanno provveduto a colmare questa lacuna con una ricognizione ricca di dati e di agevole lettura.

Stando alle vicende che gli autori hanno messo man mano a punto, dalla Belle époque sino alla fine del Novecento, il titolo apposto al loro lavoro, Comprare per credere, andrebbe peraltro rovesciato, in quanto, a indirizzare e convincere i destinatari del messaggio pubblicitario, affinché compiano determinati acquisti e abbraccino certe mode, è stata innanzitutto una robusta capacità di attrazione e persuasione, tale da portarli appunto a “credere” nei postulati confezionati a tal fine e ad agire di conseguenza.

Dopo che per quasi tutto l’Ottocento, in un mercato italiano assai ristretto, annunci e avvisi commerciali erano rimasti concentrati nella quarta pagina dei giornali o in affiches che avevano preso a popolare i muri delle strade, la strategia pubblicitaria venne ispessendosi e affinandosi nel corso degli anni Venti. Se durante il conflitto aveva avuto notevole risonanza un manifesto con l’immagine di un fante che ricordava, col dito puntato, agli italiani il dovere di acquistare le cartelle del Prestito nazionale, successivamente “artisti” e “tecnici” (come accadde un po’ dovunque in Europa) perfezionarono gli aspetti figurativi e testuali della pubblicità. In Italia, in particolare, furono dapprima alcuni cartellonisti di scuola futurista assurti presto a fama internazionale (da Leonetto Cappiello ad Achille Mauzan, da Severo Pozzati a Marcello Dudovich, ad altri ancora) a dare un’impronta originale ai manifesti concepiti nei propri atelier e concertati con imprese industriali e commerciali. Venne formandosi nel contempo un nucleo di esperti che si proponevano di pubblicizzare il prodotto mediante una creazione sistematica di immagini e argomentazioni rivolte direttamente a gruppi di potenziali acquirenti. Fu l’esordio di un processo di professionalizzazione nel settore pubblicitario, cui fece seguito, per opera del sottosegretariato per la stampa e propaganda fondato nel 1934 e trasformato tre anni dopo nel Minculpop, un crescente allineamento di ogni genere di pubblicità (era nata frattanto quella radiofonica) sia alle direttive autarchiche del regime fascista a sostegno della produzione italiana sia all’ostracismo dei suoi censori quanto a certe raffigurazioni femminili affinché non fossero “sensuali” (come quelle della “Signorina Grandi Firme” di Gino Boccasile).

Dopo la ricostruzione post-bellica si diffusero progressivamente, importati dagli Stati Uniti, i canoni di un modello pubblicitario imperniato, da una parte, sulla “casanghilitudine” delle massaie, che segnò l’irruzione alla ribalta degli elettrodomestici; e incentrato, dall’altra, sull’enfatizzazione dell’automobile quale emblema di una classe medio-alta maschile. Peraltro, imprese come la Olivetti e la Pirelli, la Finmeccanica e l’Eni, cominciarono a elaborare uno stile e un marchio specifico nella grafica e negli slogan (affidati anche a scrittori e poeti), destinati negli anni del “miracolo economico” a far testo. Unitamente a Leonardo Sinisgalli, si affermò in quel periodo Armando Testa, il cui studio coniugava la linea stilistica italiana con elementi propri delle agenzie angloamericane. Ma fu una rubrica televisiva come “Carosello” a portare e divulgare, dal 1957, la pubblicità nelle case degli italiani.

Vent’anni dopo, quando cominciò a brillare la stella di un vero e proprio imprenditore mediatico come Berlusconi, l’accoppiata fra tv privata e spot commerciali accrebbe anche il binomio fra ricerche di mercato e ricerche motivazionali per l’ampliamento degli spazi e degli influssi della pubblicità.

Più che la crescita della spesa delle famiglie in nuovi beni e servizi, a determinare la novità più rilevante degli anni Ottanta fu comunque la pubblicità man mano dedicata al mondo giovanile, che, emersa dapprima sulla scia della “moda Beat” di filiazione americana, valse a propagare nuove mode di vestire e nuove forme di marketing, di comunicazione e di vita associativa. Nel decennio successivo, fu poi la volta di una terza generazione di massmediatici a contrassegnare la traiettoria della pubblicità nella stagione culminata in una sorta di icona come quella della “Milano da bere”.

Nel corso del XX secolo, quindi, la pubblicità ha interagito, tramite le sue mutevoli connotazioni e il suo crescente impatto, nella formazione-spettacolarizzazione di una società di massa.

© Riproduzione riservata