Cultura

Il Rinascimento degli altri

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GLOBALIZZAZIONE

Il Rinascimento degli altri

Mappa. Una piantina del mondo del 1515
Mappa. Una piantina del mondo del 1515

Grazie ai viaggi di Colombo e Vasco da Gama, nell’ultimo decennio del Quattrocento interi continenti si aprirono ai traffici commerciali, alle esplorazioni, all’espansione del cristianesimo e al dominio dell’Europa, inaugurando la lunga stagione del colonialismo. Ne nacquero nuovi e immensi spazi fisici, che nei decenni futuri avrebbero continuato a dilatarsi e che gli stessi europei avrebbero dovuto imparare a inserire nei loro spazi mentali, e nel loro modo di percepire se stessi; ne nacquero grandi ricchezze e successi, così come vite miserabili svanite nel nulla, tra tempeste oceaniche e malattie tropicali, tra stenti e violenze; ne nacquero eroica dedizione missionaria e brutale traffico di milioni di esseri umani, trasferiti dalle coste africane nelle Americhe; ne nacquero nuove risorse finanziarie per la corona di Spagna, nuove tecniche marinare, nuovi prodotti, nuove coltivazioni, che avrebbero dato vita a nuove abitudini alimentari e nuove forme di socialità; ne nacquero nuove conoscenze d’ogni genere, tra realtà e leggenda, e nuove curiosità, che le tipografie furono pronte a soddisfare diffondendo una miriade di resoconti, relazioni, lettere, narrazioni che riferivano di quelle terre lontane, di viaggi perigliosi, di piante e animali mai visti, di improbabili esseri mostruosi, di usi e costumi molto diversi da quelli europei, di barbari cannibali caraibici e di raja indiani, di feroci irochesi e di raffinati mandarini cinesi.

Ne nacque insomma non solo il Nuovo Mondo, ma un mondo nuovo e diverso, e con esso nuovi problemi e inediti confronti, soprattutto in relazione alle Americhe poiché l’Asia era da secoli presente nella percezione dell’Occidente, mentre popoli e civiltà di quel continente sconosciuto si affacciavano per la prima volta sui suoi orizzonti culturali. Occorreva pur chiedersi infatti se fosse lecito ridurre in schiavitù quelle popolazioni, o meglio quanto ne restava dopo i massacri e le malattie che le avevano sterminate; e se si trattava di “genti bestiali” che dovevano essere grate per aver ricevuto dagli spagnoli la vera fede, che cosa dicevano del loro passato e della loro cultura i templi maestosi, simili alle piramidi d’Egitto, le sculture, le maschere d’oro, le antiche leggende delle popolazioni precolombiane? e anzitutto da dove venivano quelle genti di cui non c’era menzione alcuna nella narrazione biblica dalla creazione a Gesù Cristo?

È proprio il tema sempre sensibile della storia che questo libro affronta, cercando di cogliere nella storiografia del pieno e maturo Rinascimento le prime tracce del tentativo di inglobare le storie degli “altri” in un disegno non del tutto subalterno a un modello di storia universale incentrato esclusivamente sull’Europa, capace solo di dilatarlo a nuove terre e nuovi popoli, ma senza riconoscerne in modo alcuno la specifica diversità, senza dar vita a qualche forma di xenologia, senza neanche pensare di costruire l’immagine di un mondo condiviso. Il fatto che quella improvvisa dilatazione spaziale e mercantile continui a essere definita nei manuali di storia come l’età delle grandi scoperte geografiche la dice lunga sulla persistenza di una prospettiva tenacemente eurocentrica: la stessa delle prime Historiae sui temporis o Historie del mondo o Historie universali che comparvero allora sul mercato editoriale, spesso autentici best sellers sempre alimentati da nuove notizie e aggiornati. Altri e più marginali sono invece i percorsi seguiti da Marcocci, inoltrandosi con intelligenza e sapere ora negli scritti di un francescano spagnolo pronto ad avvalersi dei celebri falsi e delle fantasiose genealogie precristiane di Annio da Viterbo per ricostruire il passato delle popolazioni messicane; ora nell’opera di un portoghese precipitato dal ruolo di capitano nelle Molucche alla misera morte in un pubblico ospedale, capace di mettere in discussione il mito della conquista portoghese dell’oceano Indiano; ora nella cronaca di un nobile quetchua ispanizzato che utilizzava un best seller tedesco forse letto in versione italiana per rivalutare la dignità del suo popolo sconfitto e oppresso.

Nel Seicento queste tracce avrebbero finito col perdersi, cancellate dalla logica tutta religiosa e missionaria delle storie gesuitiche e da un modello imperiale che subordinava la storiografia alle proprie esigenze di grandezza, al punto da esigere la distruzione di ogni documentazione storica relativa ai vinti, incapace di tollerare infrazioni o eccezioni alla propria retorica vittoriosa. Il che avvenne soprattutto tra il 1580 e il 1640, quando le congiunture dinastiche unificarono sotto la corona di casa d’Austria i regni di Spagna e Portogallo in un impero mondiale, costretto tuttavia a misurarsi con la poderosa espansione sui mari dell’Olanda, dell’Inghilterra e poi della Francia, ai margini degli altri imperi asiatici: da quello ottomano, antico nemico sul fronte mediterraneo, alla Persia dei Safavidi, dall’India dei Mughal alla Cina dei Ming. Universi lontani diventati vicini nell’arco di pochi anni, che hanno suggerito di scorgere in quella profonda trasformazione le origini dell’odierna globalizzazione.

Non v’è dubbio che la crisi profonda che oggi attraversa la storia trovi una delle sue ragioni proprio nella difficoltà di dare una storia comune – anche se non condivisa – al nuovo mondo globale che si viene formando, quasi che l’unico modo di ricomporre le differenze fosse l’oblio del passato. Perché è difficile accettare un passato plurale di storie diverse, una world history fatta non solo di giustapposizioni e sincronie, di scontri e subalternità, ma anche di frontiere permeabili, di scambi materiali e culturali, di una rete inesauribile di relazioni e rapporti sempre presenti, tale da lasciare i suoi segni, per esempio, anche nei cappelli di castoro canadese o nei piatti di porcellana cinese dipinti da Vermeer, come ci ha spiegato Timothy Brook. Una storia globale, insomma, una storia “connessa”, come l’ha definita Sanjay Subrahmanyan, di cui questo libro ricostruisce alcuni frammenti, tanto più preziosi in quanto rintracciati sul terreno particolarmente refrattario della storiografia, il più sensibile alle esigenze del potere e alla logica degli imperi, ma anche l’unico sul quale ricostruire quella rete di connessioni e con essa i frammenti di un passato comune utili a capire il presente. E a capire tra l’altro come l’odierna crisi dell’Europa, la sua perdita di identità culturale e il suo rimpicciolire al cospetto dei nuovi giganti del mondo comportino anche una sua “provincializzazione” storica e storiografica, la sua cacciata dal trono dell’invenzione della modernità sul quale si era installata da secoli, costretta a deporre lo scettro di padrone del mondo e diventare periferia. Come si è persa la memoria dei re incaici, del resto, potrà forse svanire anche quella di Pericle e di Giulio Cesare, di san Tommaso e di Michelangelo, degli Asburgo e dei Borbone, di Newton e Voltaire. E magari, perché ciò non accada, non farebbe male imparare qualcosa delle storie degli altri.

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