L’Unione europea è l’Europa di Adam Smith o quella di Colbert, uno spazio di libero scambio oppure il progetto di uno Stato-nazione più in grande? Per la verità, è stata l’una cosa e l’altra, ma il cuore degli europeisti batte per una “ever-closer union”, per una Unione cioè che continui a rosicchiare sovranità agli Stati membri.
Per l’Europa di Adam Smith si schierava, solitario come suo solito, Friedrich von Hayek. Lo fece in questo saggio del 1939, originariamente uscito sul «New Commonwealth Quarterly» e ora tradotto in italiano per iniziativa di Federico Reho (giovane studioso del Martens Center), con postfazione di Flavio Felice. L’economista austriaco, alle soglie della Seconda guerra mondiale, immaginava una “federazione europea” che fosse il contrario dell’impasto di socialismo e nazionalismo personificata dal regime hitleriano.
L’obiettivo era disinnescare gli egoismi nazionali, ben sapendo che lo stesso, ossessivo investimento nella retorica del “noi” contro tutti gli altri serve a legittimare tanto le guerre commerciali che quelle guerreggiate. In una grande federazione, questo perverso gioco identitario sarebbe più difficile.
Hayek non è certo un “padre dell’Europa” e questo suo lavoro ci sembra un po’ profetico e un po’ ingenuo. Egli già aveva intuito che «con un’unità monetaria comune, la discrezionalità delle banche centrali nazionali sarà limitata almeno tanto quanto lo era in un regime di rigido gold standard». Negli anni Settanta, Hayek guarderà con scetticismo alla moneta unica, non riuscendo a immaginare come un singolo istituto d’emissione per tutto il continente possa rivelarsi più disciplinato delle banche centrali nazionali. Nel ’39 pensava invece che la “federalizzazione” potesse creare certezza e limitare il potere discrezionale degli “stampatori” di moneta.
Intravide qualcosa di simile al principio del mutuo riconoscimento, affermato dalla Corte europea con la storica sentenza Cassis de Dijon del 1979. Il mutuo riconoscimento prevede, come ricorda Reho, che le imprese possano seguire le regolamentazioni del Paese in cui producono, e vendere i propri manufatti in tutto il mercato unico, inclusi i Paesi che seguono standard differenti.
Hayek era convinto che in un’Europa federale sarebbe stato meno frequente assistere alla nascita di monopoli, o di tentativi di pianificazione economica su scala nazionale, proprio in ragione di un principio simile. «A condizione che lo Stato non possa escludere merci prodotte in altre parti dell’Unione, qualunque onere imposto a una particolare industria dalla legislazione statale la metterebbe in una posizione di grave svantaggio rispetto a industrie simili in altre parti dell’Unione».
Fin qui la profezia. L’ingenuità è quella che emerge dalla riflessione più schiettamente politica. Hayek pensava, rifacendosi all’esperienza della Svizzera e degli Stati Uniti, che in un sistema federale il conflitto fra gli Stati avrebbe stemperato le pulsioni dirigiste. «In molti casi in cui si rivelerà impossibile raggiungere un accordo, dovremo rassegnarci a non avere alcuna legislazione in un particolare ambito, piuttosto che una legislazione statale che frantumerebbe l’unità economica della federazione». Alla prova dei fatti, i politici sono molto più creativi degli economisti: ormai è pressoché impossibile che, innanzi a un disaccordo, si decida di non intervenire. I compromessi sono sul quanto, non sul se, lo Stato debba fare.
Nel modo in cui Hayek disegnava questa “federazione” proprio mentre Hitler dava fuoco alle polveri, si intravede una certa nostalgia. La stessa che contagiò molti intellettuali austriaci costretti alla diaspora. Il rimpianto per un’istituzione che in gioventù alcuni di loro avevano disprezzato, genuinamente sovrannazionale, di ambizioni limitate quanto a controllo dell’economia, e in grado di consentire la convivenza pacifica fra etnie diverse: l’Impero austroungarico. Davvero Il mondo di ieri, per citare l’autobiografia di Stefan Zweig, nel ’39 e purtroppo anche oggi.
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