Cultura

Smettiamola di fare teatro

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ROMA

Smettiamola di fare teatro

Esperienza lucida e matura. «La posibilidad que desaparece frente el paisaje» di El Conde de Torrefield  (foto di Ainara Pardal)
Esperienza lucida e matura. «La posibilidad que desaparece frente el paisaje» di El Conde de Torrefield (foto di Ainara Pardal)

Anche stavolta Short Theatre, il festival romano di fine estate, si è confermato un appuntamento vivace, ricco di proposte, capace di attirare un pubblico giovane e aperto ai nuovi linguaggi. Il programma di quest’anno è stato soprattutto caratterizzato da importanti presenze straniere, fra le quali ne spiccavano due in particolare, il gruppo catalano El Conde de Torrefiel e il belga tg STAN. Entrambe queste realtà militano, in modi diversi, in quella che si potrebbe definire un’area di de-teatralizzazione, di tensione anti-rappresentativa, ma è specialmente la prima che mi ha colpito profondamente, mi ha sorpreso più di quanto potessi immaginare.

Sapevo che El Conde de Torrefiel era già stato ospite di altri festival italiani, fra cui nel 2014 lo stesso Short Theatre: non mi aspettavo però un’esperienza così lucida e matura. Il lavoro dei due registi-drammaturghi, Tanya Beyeler e Pablo Gisbert, parte sicuramente da fenomeni già esistenti, da certe soluzioni stilistiche di Rodrigo Garcìa e di altri talenti atipici della scena odierna, ma rispetto ad essi sembra proiettarsi dieci anni più avanti. Dà l’impressione che quello che per comodità definiamo teatro di ricerca sia uno strumento del pensiero ormai acquisito, non legato a mode o tendenze del momento.

In cosa consiste La posibilidad que desaparece frente al paisaje, lo spettacolo presentato a Short Theatre? Diciamo, in estrema sintesi, che la sintassi espressiva messa a punto dagli autori si articola su due piani simultanei: nella parte alta della scena, del tutto vuota, scorrono testi proiettati che citano per lo più figure dell’arte e della cultura e le loro considerazioni – reali o presunte - sui rapporti tra verità e artificio, tra civiltà e natura, tra vita vissuta e invenzione creativa. Nella parte bassa quattro performer mimano brevi azioni fisiche.

I testi sono dislocati in dieci località diverse, in ciascuna delle quali si inquadra un evento, un fatto emblematico, un’argomentazione di interesse più o meno collettivo o intimo. A Berlino il fotografo Spencer Tunick mette in posa davanti al monumento all’Olocausto 5mila persone, nude come le vittime dei lager. A Marsiglia Michel Houellebeque, a letto con una prostituta, disquisisce sul fatto che gli artisti sono i migliori nel progettare rivoluzioni senza mai farle. A Varsavia Zygmunt Bauman scrive al nipote che la nostra vita è totalmente impregnata di economia, è lei che «ha contribuito ad abbattere il Muro di Berlino, a bombardare Gaza, a illuminare il Maracanà durante i mondiali».

Parole e gesti sono a volte attinenti, a volte seguono un andamento separato. E proprio in queste divaricazioni si insinuano interrogativi, suggestioni, piccoli spunti di riflessione. Il testo, acuto, pungente, mescola battutacce ad acri squarci filosofici. La gelida gabbia formale, all’apparenza priva della carne e del sangue del teatro, è retta invece da un’incalzante costruzione ritmica, da un accurato mix di suoni e silenzi. Dal rigore concettuale affiora a tratti un’impetuosa irruzione dei sentimenti, il dolore, la solitudine, un cupo pessimismo. E il pezzo, scandito da un grande gong, sulla poetessa ucraina Olga Shevchenkova che scrive amare divagazioni sul tema dell’invecchiamento, poi le cancella perché sono troppo tristi per piacere al suo editore, è davvero straordinario.

Anche tg STAN si muove sul filo di un sottile esercizio meta-teatrale, ma in una chiave tutto sommato più tradizionale. La compagnia belga si misura con un vero testo drammatico, Tradimenti di Pinter, quello in cui si ripercorre una relazione extra-coniugale a partire dalla fine, quando si è chiusa già da tempo, per poi risalire a ritroso fino alla fase iniziale. La pièce viene affrontata con sostanziale fedeltà, ma è realizzata praticamente “a vista”, coi tre bravissimi attori che entrano ed escono dai personaggi sotto gli occhi degli spettatori.

L’azione, immersa nelle luci di sala, si svolge non in un ambiente definito, ma su un rettangolo di linoleum bicolore, rudimentale arena. Su un lato, lungo la parete, sono allineati gli oggetti di scena, un letto, un piccolo frigorifero, un paio di scarpe femminili, dei piatti con fette di melone. Sull’altro lato c’è il tavolo della fonica. Quello tra gli interpreti che di volta in volta non è alla ribalta resta fuori a osservare gli altri, avvia le musiche, sposta gli unici arredi, due sedie e un tavolino.

Avevo visto tg STAN anni fa a Santarcangelo in Tout est calme, un Thomas Bernhard spinto al limite della farsa. In Tradimenti, viceversa, la rinuncia alla patina salottiera che impronta in genere le opere di Pinter coglie i protagonisti in una specie di vuoto, mettendoli a nudo nel loro spaesamento. In questo contesto neutro, ogni atto diventa concreto e al tempo stesso allusivo: quando il marito tradito, dai margini della scena, porge le bevande agli altri due attori sembra assecondare la loro relazione, con un effetto insolitamente straziante.

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