Cultura

Infinito in quindici endecasillabi

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POESIA FESTIVAL DI VIGNOLA

Infinito in quindici endecasillabi

Il trionfo della poesia. Raffaello Sanzio  «Il Parnaso», Roma, Palazzo Apostolico del Vaticano
Il trionfo della poesia. Raffaello Sanzio «Il Parnaso», Roma, Palazzo Apostolico del Vaticano

Senza l’idea, senza il mito, senza un’idea mitica di poesia, sembra che questo genere letterario, che fu condotto dalla modernità a limiti estremi di essenzialità autoriflessa, sia oggi quasi impensabile. Dalla metà dell’Ottocento in poi (dopo Baudelaire), se non prima (dopo Novalis o Coleridge o Leopardi), i poeti hanno lavorato in presenza dell’idea di poesia. Un’idea asceticamente, realisticamente autolimitativa, eppure eroica e mistica. Hanno cercato protezione in una nuova idea di poesia e hanno lottato contro ingombranti eredità. Hanno scritto poesie per ubbidire a un’idea, per esemplificarla, o per spiegare, giustificare, celebrare il proprio fallimento sociale e la propria misantropica nausea del genere umano.

È questo che ha trasformato molti dei maggiori poeti moderni in critici eccezionalmente audaci, acuti e severi. Il meglio della critica moderna è stato scritto in buona parte da poeti che hanno scelto e giudicato il proprio genere letterario come il primo o il solo capace di rivelare misteri e poteri del linguaggio e decidere che cos’è, in essenza, la letteratura, quale specifico inconfondibile uso della lingua fanno gli scrittori, o meglio “i più veri” scrittori, cioè i poeti.

Così la filosofia, la teoria e la critica sono entrate nella poesia, l’hanno alimentata e identificata, dai primordi del romanticismo, già con Schiller, fino a metà Novecento. Nell’idea di lirica moderna erano contenute una volontà e una coscienza di discontinuità rispetto agli autori classici e a tutto il passato. Essere moderni voleva dire affrontare l’ignoto, azzerare la tradizione, reinventare le tecniche compositive, avventurarsi in zone inesplorate dell’immaginazione e dell’esperienza interiore, scegliere la libertà in solitudine, sfidare l’incomprensione del pubblico.

Ma è anche vero che la tradizione secolare del poeta come sapiente, filosofo o erudito enciclopedico non solo è arrivata dalla classicità greco-latina fino a Dante, Milton, Goethe, ma in forme diverse, esoteriche, nichilistiche o neoilluministe, una tale tradizione è presente anche nei grandi moderni, Leopardi, Baudelaire, Valéry, Yeats, Eliot, Benn, fino a Auden, Czeslaw Milosz, Octavio Paz, Enzensberger. Questa lunghissima tradizione ha subito un crollo solo recentemente. In Italia sono stati poeti intellettuali, saggisti e critici di primo piano Montale e Saba, Luzi, Pasolini, Zanzotto e più limitatamente (perchè meno poeti) Fortini e Sanguineti.

Due secoli fa e nella prima metà del Novecento i poeti ebbero bisogno di elaborare una nuova idea di sé perchè erano certi di essere una realtà nuova. Oggi una protettiva idea-mito di poesia prende il posto di una realtà poetica che non c’è, nonostante l’enorme quantità di testi pubblicati. A questo punto, nelle ultime propaggini di una postmodernità “mutata” perchè non più consapevole della modernità che l’ ha preceduta, l’idea di poesia si è ridotta a un fantasma nominale. Non è più teorizzazione in atto, è un principio vuoto su cui nessuno riflette perchè ha solo la funzione di giustificare a priori un’iperproduttività che, essendo culturalmente inspiegabile, non è neppure criticabile. È un fatto che la maggior parte dei critici ormai non si occupa più di poesia contemporanea. Dopo essere stata nel XX secolo al centro della cultura letteraria e degli interessi di chiunque si chiedesse «che cos’è la letteratura», la poesia scritta da autori nati dopo il 1940 è ridotta a una sopravvivenza marginale. Questo è dovuto senza dubbio anche all’indifferenza della critica e all’insipienza degli editori. Ma la causa è nel fatto che per riconoscere il valore, la qualità, la rilevanza e la stessa esistenza o meno di un poeta non si sa più quali argomenti e criteri usare. Criteri e argomenti condivisi non ce ne sono, di formazione del gusto è vietato parlare, e quindi qualunque giudizio critico competente può essere ritenuto del tutto arbitrario da chiunque, per qualunque ragione, non lo condivida.

La lirica non è più un’“arte anacoreta” (come diceva Benn) né un uso autoriflessivo del linguaggio (come voleva Jakobson), ma un genere letterario autistico benché largamente praticato. Lo dimostra tra l’altro la stravagante attrazione che circola negli ambienti poetici per il genere di filosofia più gergale e tautologia: l’ontologia. Non c’è rivista di poesia che non esibisca Heidegger come santo protettore. È un guaio, una vera trappola. Un cercare di essere poeticamente senza vedere che dentro l’essere si spalanca il nulla, dato che l’uno e l’altro sono impensabili e indicibili.

Si tratta invece di attenersi ai testi, al loro funzionamento, alla loro leggibilità, alle tecniche verbali, all’energia e vitalità linguistica, mimetica, espressiva, cognitiva, ludica di ogni singola poesia. La poesia ha sempre dimostrato che con la lingua si possono fare molte cose diverse, anche le acrobazie più sorprendenti. Si può dire moltissimo in un paio di versi o quasi niente in un libro intero. Si può riflettere, sognare, scherzare, inveire, raccontare. Proprio per questo, scrivendo poesia, anche fallire e barare è più facile e meno evidente che scrivendo saggi o romanzi. In mancanza di regole, in assenza di una comunità di lettori competenti e appassionati e di critici esigenti, per la poesia il rischio di autodistruggersi è sempre prossimo. Eppure in quindici endecasillabi si può parlare, come Leopardi, dell’infinito. Usando solo un esametro e un pentametro, come Catullo, si può scoprire che l’amore può diventare odio, o che il grande Giulio Cesare non ha niente di interessante per chi vive di amicizie e non ha mire politiche. Ungaretti, in due parole e un a capo, si è illuminato d’immenso pur essendo un soldato in guerra. Majakovskij e Brecht hanno scritto in versi dei comizi comunisti. Auden in otto terzine ha riassunto l’universo dalla Galassia al sistema solare, fino alla vita zoologica e a quella umana, dal concepimento all’angoscia morale.

Concluderei con un po’ di pragmatismo. Il vero vuoto che rende ineffettuale la poesia, più ancora che la mancanza di lettori, è la mancanza di lettura, l’incapacità di leggere, l’assenza di passione per la lettura di poesia e infine, soprattutto la mancanza nei poeti di quella che chiamerei la «passione di essere letti». Chi non vuole essere davvero letto, chi non vede, non prevede, non sente mentalmente la presenza di un lettore che sia almeno un suo pari e che lo giudichi, non potrà che scrivere cose illeggibili, scrittura che fa a meno della lettura perché non la sente necessaria, non la chiede e non la teme.

Gli autori di poesie spesso oggi si lamentano perché non sono letti e non sono recensiti. Mostrano di non sapere che essere letti è un rischio, oltre che un piacere e un privilegio (mai un diritto). Se il lettore è una presenza reale e non un fantasma, cari poeti, vi giudicherà. Perciò (direbbe Apollinaire) «poveri poeti, lavoriamo», se avete in mente qualcosa che meriti di essere messo in versi. Del resto sono i versi che inventano le cose da dire nel come dirle. Leggetevi, provate a leggervi quando scrivete. I lettori che cercate esistono o non esistono nel vostro modo di scrivere.

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