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L’eretico fa ridere

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Religione

L’eretico fa ridere

Inglese & cattolico. Lo scrittore Gilbert Keith Chesterton (1874-1936)
Inglese & cattolico. Lo scrittore Gilbert Keith Chesterton (1874-1936)

Teneva incollati davanti al televisore ben 18 milioni (sic!) di spettatori e tra essi c’ero anch’io: dobbiamo, però, risalire alla sera di domenica 29 dicembre 1970 quando sugli schermi scorreva solo l’unico programma “nazionale”. In una serie di sei puntate andavano allora in onda I racconti di Padre Brown, il cui protagonista era un vivace Renato Rascel, «assai più casereccio dell’acuto personaggio inventato dallo scrittore inglese Chesterton» (Aldo Grasso), prete detective in costante contrappunto con l’amico, il ladro redento Flambeau, che aveva allora il volto di Arnoldo Foà. Ma questo ironico e geniale autore, cattolico professo – «Qual è la differenza fra la Chiesa cattolica e quella anglicana? La Chiesa cattolica è la Chiesa dei grandi santi e dei grandi peccatori. La Chiesa anglicana è quella della gente rispettabile» – aveva nella sua immensa bibliografia non solo scritti narrativi. Anzi, le sue opere maggiori erano di forte impegno teorico, il tutto sempre condito con la spezia dello humour britannico.

Eccone solo qualche esempio tra i mille possibili: «Un grande classico è uno scrittore che si può lodare senza averlo letto... Per me l’unico modo di prendere un treno è perdere il treno precedente... Noè diceva spesso a sua moglie quand’era a tavola: Non m’importa dove va l’acqua, purché non vada nel vino... Un ottimista è un uomo che vi guarda negli occhi, un pessimista un uomo che vi guarda i piedi... Quando non si crede più in Dio non è vero che non si crede più a nulla, si crede a tutto» e così via, al punto tale che esistono battute apocrife come quella che il presidente Kennedy gli attribuiva: «Non abbattere mai una palizzata prima di conoscere la ragione per cui fu costruita». Oppure quella modulata sulla sua mole fisica: «Oggi, in metropolitana, sono stato felice di cedere il mio posto a due signore». Certo è che Gilbert Keith Chesterton, nato a Londra nel 1874 e morto in una cittadina del Buckinghamshire nel 1936, amò sempre il bagliore del paradosso ironico ma mai banale, convinto com’era che «una battuta di spirito è una cosa assoluta, sacra, che non si può criticare. I nostri rapporti con una buona battuta di spirito sono immediati e addirittura divini». È per questo che, secondo lui, la serietà è un vizio più che una virtù e la sua ammirazione andava a San Francesco perché fu «colui che fece tutto da innamorato».

Per questo, sempre sul filo del paradosso, era convinto che i vangeli hanno parlato solo del pianto di Cristo ma non del suo riso, perché «era una cosa troppo grande per mostrarcela quando camminava su questa terra» e perciò egli sfogava la sua gioia nella solitudine, «quando s’inerpicava sulla montagna a pregare». Il cristianesimo era per Chesterton la religione dell’incarnazione nella storia, del coinvolgimento col groviglio delle vicende umane e non una spiritualità astratta, in volo nei cieli mitici e misticheggianti. Infatti, scriveva: «Tutta l’iconografia cristiana rappresenta i santi con gli occhi aperti sul mondo, mentre l’iconografia buddhista rappresenta ogni essere con gli occhi chiusi». Il cattolicesimo, perciò, col suo peso – come si è detto – di santi e peccatori, di glorie e di infamie, partecipa meglio del realismo dell’incarnazione. E questo realismo si esprime nel quotidiano semplice e modesto più che nell’epifania possente e perfetta: «Con un po’ di pazienza, un po’ di comprensione, un po’ di gioia e un po’ di umiltà, non avete idea di quanto potreste trovarvi bene su questo nostro pianeta terra».

Speriamo, attraverso questo sfarfallio di battute, di aver ingolosito quei lettori che non hanno mai incrociato testualmente lo scrittore londinese, perché provino ad affrontare anche i saggi più impegnativi, sempre segnati dal fremito della polemica ironica (mai però sarcastica e offensiva). Abbiamo, infatti, l’occasione di suggerire due suoi saggi importanti, da accostare a dittico perché così sono stati concepiti: essi sono ora proposti dall’editrice Lindau all’interno del progetto “Chestertoniana”, una sorta di opera omnia dell’autore inglese. Partiamo, dunque, con Eretici. In un’opera postuma, L’uomo comune, egli offriva un suggestivo ritratto dell’eretico: «Nel vecchio mondo si chiamavano eresie, nel mondo moderno sono chiamate mode... L’eretico, che è anche sempre fanatico, non è colui che ama troppo la verità. È invece colui che ama la propria verità più della verità stessa. Preferisce, alla verità intera scoperta dall’umanità, la mezza verità che ha scoperto lui stesso».

Ebbene, chi sono questi moderni eretici/eresie? Chesterton non ha nessuna esitazione e, anziché ricorrere a fumose allegorie o ad ammiccamenti crittografici, punta l’indice contro certe icone del suo tempo, da Kipling a Shaw, da Wells a Whistler, oppure contro i dogmi laici di sempre, come l’idolo adorato del progresso, il determinismo, il positivismo, lo scetticismo, l’illuminismo massonico e l’ateismo marxista ma anche il capitalismo sfrenato. Ed è un godimento leggere queste pagine che, tra l’altro, rivelano la fusione tra il nitore cristallino dell’argomentazione dialettica con un retroterra molto vasto di letture, confermando quello che lui stesso affermava riguardo alle varie opere letterarie: «esse sono sempre allegoriche di una qualche visione totale del mondo». Ed è per questo che a Eretici – che era una silloge di articoli critici precedenti, pubblicata nel 1905 – Chesterton decise nel 1908, spinto anche dalla sollecitazione di molti lettori, di proporre la sua visione positiva dell’essere e dell’esistere.

Nacque, così, una delle sue opere maggiori e più citate, provocatoria già nel titolo, Ortodossia, con evidente rimando alla sua fede cristiana incontaminata, senza imbarazzi nei confronti del mistero che alona il credere, perché «l’uomo può capire tutto con l’aiuto di quello che non capisce. Il logico morboso vuol vedere chiaro in ogni cosa col bel risultato di rendere ogni cosa inesplicabile». Nessun imbarazzo anche nell’adottare un taglio nettamente apologetico nei confronti di una fede a cui egli aderiva proprio perché convincente: per questo egli non esitava a presentarsi ai crocevia critici ove obiezioni, accuse, riserve si levavano a sbarrare il percorso del credente. Chesterton, però, le spianava con la lievità del suo stile accattivante e gustoso ma anche con la fermezza di un argomentare rigoroso e ineccepibile.

Ma, spazzate via le “eresie” antiche e soprattutto moderne che costituivano la sostanza anche del precedente volume, ecco aprirsi l’orizzonte libero, gioioso e fecondo del cristianesimo: il suo respiro morale diventa, così, capace di alimentare «una vita attiva e ricca di fantasia, pittoresca e piena di curiosità poetica, una vita come quella che l’uomo occidentale, in ogni caso, sembra aver sempre sognato». È proprio il contrario di un pedante ascetismo, di un’afflizione intellettuale, di un meschino moralismo, come scriverà un anno dopo nelle pagine dei Tremendous Trifles (titolo evidentemente ossimorico, “tremende inezie” o “bagatelle”): «Se c’è qualcosa di peggio del moderno indebolirsi dei grandi principi morali, è l’odierno irrigidirsi dei piccoli principi morali». Leggendo Ortodossia (ma non solo), si riesce, allora, a capire, perché l’agnostico Borges confessasse: «La letteratura è una delle forme di felicità; forse nessuno scrittore mi ha dato tante ore felici come Chesterton».

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