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Lavorare, che privilegio

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Economia e Società

Lavorare, che privilegio

Bandiera di contrada. Afro Basaldella, nell’ambito della mostra   «Alberto Burri: Lo Spazio di Materia -    tra Europa e USA». Città di Castello (PG), Ex Seccatoi Tabacco, fino  al 6 gennaio
Bandiera di contrada. Afro Basaldella, nell’ambito della mostra «Alberto Burri: Lo Spazio di Materia - tra Europa e USA». Città di Castello (PG), Ex Seccatoi Tabacco, fino al 6 gennaio

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Mi piacciono molto i passi in cui gli scrittori, soprattutto gli scrittori del passato, riflettono sul loro mestiere. Mi sono sempre nutrita, fin da giovane, di questi scritti letterari un po’ a margine, appunti, note, piccoli manuali su cosa significa scrivere, inventare storie, collocare virgole, cambiare parole. Ne ho una piccola collezione, in una sezione appartata della mia libreria.

Oggi per esempio mi capita sottomano Virginia Woolf, Spegnere le luci e guardare il mondo di tanto in tanto, una raccoltina curata da Federico Sabatini per minimun fax, 2014. Apro a caso: «Per quanto riguarda il mot juste hai decisamente torto – scrive Virginia a Vita Sackville-West nel 1926 -. Lo stile è una questione molto semplice: è una questione di ritmo. Una volta che lo acquisisci non puoi sbagliare a trovare le parole». Per lei era un concetto molto chiaro: se sei dentro al ritmo, trovi le parole giuste. Lo ribadiva spesso con l’immagine dell’onda, di un’«onda della mente» che ti prende o non ti prende, e si crea molto prima di trovare le parole.

Mi ricorda un tipico refrain del mio appena trascorso mestiere d’insegnante: durante l’ora di tema in classe, gli allievi spesso s’accostavano alla cattedra chiedendomi di aiutarli a trovare una parola che non veniva, o un sinonimo, e io immancabilmente non ne ero capace, e, scusandomi molto e sentendomi una vera incapace, dicevo: vai a posto e rimettiti a scrivere, vedrai che ti verrà. Non lo sapevo dire meglio, ma era lo stesso concetto che ora trovo mirabilmente espresso dalla Woolf: quando non troviamo le parole, vuol dire che abbiamo perso il ritmo, che non siamo più nell’onda, qualcosa ci ha distratto e ci ha portato via. La parola che non viene è il segno che la scrittura si è smarrita da qualche parte, e ci ha lasciati soli in mezzo al mare. Ed è completamente inutile chiedere aiuto ad altri, insegnanti, compagni o amici: nessuno è con te sulla tua barchetta in mezzo a quel mare, puoi solo tornare ai remi e sperare di re-immetterti nel ritmo. Ovvero nel vento. Ecco, il vento direi che è ritmo per definizione. La parola che non viene è la bonaccia, la barca che si arena, la balena spiaggiata: la fermata nel movimento incessante che ci dovrebbe accompagnare sempre, il segno che si è creata una pausa, un rallentamento, un ostacolo nel tuo universo. La ricerca del sinonimo è una delle ricerche più vane della terra: se cerchi un sinonimo, vuol già dire che ti sei perduto. E consultare uno dei nostri magnifici dizionari dei sinonimi e contrari è solo il segno più tangibile della sconfitta.

Comunque gli scrittori del presente scrivono poco del loro scrivere. Molto meno degli autori del passato, o forse non ne scrivono per niente. La maggior parte degli scrittori del presente credo che ami la trama, o la Storia. Cioè la fiction o il documentario. In entrambi i casi la speculazione sulla scrittura c’entrerebbe ben poco. O forse questi loro scritti di autobiografia metaletteraria esistono ma non si vedono, perché gli editori non li pubblicano (credo che pensino che avrebbero poco mercato). Nel qual caso mi dispiace. Ma credo facciano bene, gli scrittori del presente, a lasciar perdere: i lettori del futuro non avranno tempo di leggere anche che cosa pensano coloro che scrivono: era un lusso da lettore del passato. Riusciranno a mala pena, questi lettori futuri (ammesso che esisteranno), a seguire il ritmo incalzante delle nuove uscite, dei libri che incalzano, e si scalzano tra di loro.

Così, nessuno sarà più maestro per nessuno, e tutti saranno protesi a un futuro prossimo immediato, che diventerà passato sommerso nel giro di qualche luna. D’altronde, a dirla tutta, non credo esisteranno nemmeno più gli autori, cioè gente identificabile con un nome e cognome, una biografia e meno che mai uno stile. Tutto sarà preso in un unico vortice, in un’onda gigantesca, appunto, per tornare all’immagine bellissima della Woolf, un’onda in cui tutto sarà di continuo travolto e rimestato. Non è già un po’ così, in fondo? Saremo sempre più ciottoli di mare sulla riva, in attesa che il mare ci prenda e un giorno, chissà, ci riporti.

C’era una volta il lavoro

A proposito di futuro, sto riflettendo molto sul reddito di cittadinanza. Ma non tanto nello specifico della proposta M5S, quanto riguardo a una mia personale idea, più sfumata e più assoluta insieme, di dotare ogni cittadino di un reddito mensile fisso, che gli consenta la sopravvivenza in un mondo dove sempre meno troverà lavoro.

Rifletto molto, ultimamente, anche sul lavoro, su come l’abbiamo concepito, in occidente, nell’ultimo secolo e su cosa ne sarà da adesso in poi. Abbiamo presunto che ci fosse lavoro per tutti per sempre, lo abbiamo dato per scontato, e abbiamo fondato la vita quotidiana sul lavoro, sui suoi ritmi, sui suoi significati identitari, oltreché economici. Abbiamo anche creato dei lavori fittizi, e un profluvio di posti di lavoro, che abbiamo moltiplicato a dismisura, e di cui forse la società poteva in parte fare a meno: lo abbiamo fatto perché nessuno restasse senza lavoro. Ma intanto il progresso, inesorabile, avanzava. Abbiamo sottovalutato il lato oscuro del progresso. E le strabilianti scoperte e le incessanti innovazioni ci portano ora (e ci costringono!) a lavorare sempre meno: l’evoluzione tecnologica ci metterà sempre più da parte, la produzione non avrà più bisogno di noi.

Inutile buttarsi sulle professioni che più ci appaiono prestigiose e gratificanti, ma che sono oggi sempre più in odore di superfluo, e decisamente “lussuose”: c’è un limite, non abbiamo bisogno di milioni di psicologi, sociologi, filosofi, esperti di comunicazione, organizzatori di eventi, pedagogisti, scienziati della politica o che altro (non a caso la disoccupazione giovanile in questi campi è già oggi spaventosa). Nemmeno abbiamo bisogno di essere inondati di avvocati, ingegneri gestionali e architetti. Professioni decisamente utili, oltre che prestigiose e gratificanti. Ma, oltre un certo numero, platealmente inutili.

Il futuro che ci si prospetta è di una maggioranza di persone che non lavorerà più. Lavoreranno solo quei pochi che servono, non ancora e non interamente sostituibili dalle macchine e dal software, e squisitamente dediti solo al lavoro manuale (che nessuno oggi vuol più fare e che infatti perlopiù appaltiamo agli stranieri): idraulici, decoratori, camerieri, giardinieri, cuochi, parrucchieri, colf, muratori, spazzini, badanti. Per quel che riguarda le professioni “lussuose” e overbooking, lavoreranno solo i più bravi, credo: i migliori avvocati, i migliori psicologi, i migliori giornalisti, i migliori insegnanti, i migliori architetti. Costoro lavoreranno moltissime ore al giorno, troppe. Tutti gli altri a spasso, letteralmente a passeggiare per le vie.

Il lavoro sarà un privilegio, riservato ai pochi. Quindi, un tempo libero immenso e vuoto si aprirà davanti agli altri e li inghiottirà come un baratro. Il vero problema dei prossimi anni sarà come occupare la giornata, come far sì che il tempo passi e si arrivi a sera.

Mi viene un pensiero retrospettivo, a questo punto: che il lavoro sia stato, nella storia, la più gigantesca e meravigliosa invenzione trovata dall’uomo per riempire il vuoto. Un po’ come la scuola per gli adolescenti, a cui altrimenti non sapremmo cosa far fare e dove dire di andare: in attesa di aver l’età per lavorare, li mandiamo a scuola; e poi speriamo (ma era una speranza antica, oggi non ci sfiora neanche) che, grazie alla scuola, trovino un lavoro che li accompagni fino alla pensione. Non è forse stato così, finora? Bene, non lo sarà più. (A proposito, nell’ottica di un futuro in cui nessuno lavorerà, cosa studieremo a fare? O aboliamo la scuola, o ci convinciamo che essa possa avere una funzione inutile, completamente avulsa da ogni finalità pratica: non male, per come la vedo io. Potremo finalmente allevare una massa di filosofi e poeti. Dotati di reddito di cittadinanza, ovviamente).

Vedo su giornali e tivù, proprio in questi giorni, che la Google sta preparando un modello di automobile senza guidatore. Bene, non guideremo nemmeno più l’auto. Nell’ozio totale che ci attende, ci faremo mancare anche questa occupazione-passatempo così amata da un secolo a questa parte. Saremo assenti anche lì, anche alla guida. Deleghiamo. Ci facciamo sostituire. Tutti seduti sui sedili posteriori a guardare il paesaggio.

Diventeremo contemplativi e oziosi. Dormiremo fino a mezzogiorno e poi ci butteremo sui videogiochi e sulle chat. Faremo video e posteremo immagini da condividere con migliaia di followers o pseudo-amici. Ci sbatteremo sulle sedie dei bar a mangiare e sbevazzare fino alle prime ore del mattino. (Tutte attività a cui, più o meno, ci stiamo già dedicando, mi pare...). Oppure lo Stato ci obbligherà al volontariato, ottenendo gratis un lavoro che di fatto pagherà col cosiddetto reddito di cittadinanza.

Oppure, per eccesso di noia, depressione o disperazione, a poco a poco torneremo all’agricoltura, alla caccia... e magari anche alla guerra.

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Il prezzo della libertà
(o il prezzo della fama)

È morto, ad agosto, Tommaso Labranca. Immagino che pochi sappiano chi era. Io stessa lo ignoravo. Mi è capitato solo ultimamente di leggere un suo libro: per caso, proprio qualche giorno prima che morisse, ho conosciuto un suo caro amico, Milo, che mi ha regalato Vraghinaròda. Viaggio allucinante fra creatori, mediatori e fruitori dell’arte, che mi ha molto colpita per la verve ironica e dissacratoria.

Claudio Giunta ha scritto, alla sua morte (su questo giornale il 30 agosto) parole di grande ammirazione e lode, dicendo che Labranca ha scritto libri bellissimi ed era uno spirito geniale, anticonformista, antiretorico, libero. Il suo articolo mi ha fatto pensare: ma se era così unico, originale, indipendente, provocatorio, perché lo conosciamo così in pochi? Perché non è arrivato al successo, perché ha pubblicato con piccoli editori, perché è vissuto nell’ombra? Perché non l’abbiamo notato, e apprezzato com’era giusto? Perché, se davvero era un grande scrittore, ce lo siamo perso?

Dev’esserci stata una pecca, una mancanza, un peccato originale di cui s’è macchiato, coscientemente o no. Qualche regola che non ha rispettato, qualche convenzione, e convenzionalità, cui si è sottratto. Forse si è permesso di essere una voce libera? Forse si è concesso il lusso di non appartenere a nulla e a nessuno, nessuna confraternita o partito o congrega letteraria? Può essere questo che lo ha relegato nel nulla? Giunta dice che dai suoi libri e interviste si evince che fosse refrattario ai compromessi, censorio, sprezzante verso il mondo para-culturale delle tivù e dei giornali che pure gli davano da vivere. Che cosa ne dobbiamo dedurre, che ci perdiamo i migliori perché, in quanto migliori, si rifiutano di appartenere all’establishment? E che di conseguenza raggiungere la fama vuol dire non essere tra i migliori? Quindi, meglio morire sconosciuti? (sempre che per “migliori” vogliamo intendere uomini liberi...).

Che un limbo degli Spiriti magni (e liberi!) accolga tutti i Tommaso Labranca del mondo. E che però, per favore, un poeta prossimo venturo (famoso, ma ciò nonostante libero) li celebri, strappandoli all’abisso dei geni inesistenti.

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