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Orlando Furioso per immagini

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Arte

Orlando Furioso per immagini

Prestito eccezionale. Tiziano Vecellio,  «Il Baccanale degli Andrii» (1523–1526), Madrid, Museo del Prado in mostra a Ferrara
Prestito eccezionale. Tiziano Vecellio, «Il Baccanale degli Andrii» (1523–1526), Madrid, Museo del Prado in mostra a Ferrara

«Quando mi volgo a considerare [la Gerusalemme Liberata] parmi d’entrare in uno studietto di qualche ometto curioso che sia dilettato d’adornarlo ... di coselline. [...] Quando entro nel Furioso, veggo aprirsi una guardaroba, una tribuna, una galleria regia, ornata di cento statue antiche dei più celebri scultori, con infinite storie di pittori illustri, con un gran numero di vasi, di cristalli, d’agate di lapislazzuli e d’altre gioie, e finalmente ripiena di cose rare, preziose, meravigliose».

Per quanto beneaugurante, il celebre apprezzamento di Galileo Galilei non è stato di gran aiuto concreto quando con Adolfo Tura ci siamo posti il problema di raccontare con una mostra il poema di Ariosto, l’opera-mondo del Rinascimento italiano. Se non in una cosa: non fare una esposizione di cimeli, di piccole rarità. Da subito, in sintonia con i nostri colleghi-committenti di Ferrara Arte, abbiamo deciso di porre Orlando al centro. Non il suo autore, quindi, come ha fatto il British Museum nel 2012 con Shakespeare. Ma ha anche voluto dire tenere sullo sfondo la fortuna del poema nell’arte successiva, un tema a cui Lina Bolzoni ha dedicato studi poderosi in tempi recenti e a cui è stata dedicata una mostra al Louvre nel 2009, ed ora una seconda, ampliata, è in corso a Tivoli.

Porre Orlando al centro per noi ha significato fare una mostra che lavora sull’immaginario visivo dell’autore. In altre parole: quello che Ariosto vedeva quando chiudeva gli occhi immaginando il Furioso. Con l’aiuto di un consiglio scientifico, in particolare di Marco Collareta, abbiamo convocato in mostra opere che Ariosto poté effettivamente conoscere attraverso i propri occhi, perché evocate nei suoi scritti o pezzi celebri delle collezioni dei suoi signori. Fra i dipinti, per intenderci, la Minerva che scaccia i vizi di Mantegna allora nello studiolo di Isabella d’Este (oggi in prestito dal Louvre) o il Baccanale degli Andri di Tiziano, una delle grandi tele del leggendario Camerino delle pitture di Alfonso I, che l’impegno del Ministro per i Beni Culturali e la generosità del Prado hanno consentito di riportare per la prima volta a Ferrara dal 1598.

Accanto ad essi abbiamo collocato pezzi coerenti con la tradizione che nutrì l’immaginario di Ariosto e dei lettori. Abbiamo rivolto la nostra attenzione a quelle tipologie di oggetti che costituiscono i veicoli nella migrazione delle immagini attraverso la storia e la geografia: arazzi, manoscritti miniati, libri a stampa con illustrazioni silografiche, bronzetti. Il Furioso è il sogno divertito di un antico mondo cavalleresco medievale mai esistito se non nella letteratura. Ambientando gli eventi nel remoto passato carolingio, Ariosto aveva concesso estrema libertà alla propria immaginazione. Le più antiche immagini delle epopee di Carlo Magno e arturiane che abbiamo raccolto in mostra risalgono al Trecento, come la vertiginosa pagina in cui Bernabò Visconti poteva vedere re Artù giocare a scacchi (dalla Bibliothéque nationale de France) o al Quattrocento, come l’arazzo con la battaglia di Roncisvalle in prestito dal Victoria and Albert Museum. Non fonti primarie, tali visualizzazioni sono esse stesse frutto di sedimentazioni successive: la fantasia di Ariosto si nutriva a sua volta di altre fantasie, un mondo di ipotesi costruito su ipotesi precedenti.

A differenza di Jacopo Sannazaro, Ariosto non sentì il bisogno di studiare Alberti per costruire la propria casa. Né, come Pietro Bembo, volle sviluppare una collezione d’arte. Ma dalle pagine del Furioso possiamo indovinare quale avidità guidasse i suoi occhi a impadronirsi d’immagini per trarne poi spunto alle proprie fantastiche costruzioni. Queste premesse ci hanno condotto lungo la strada ardua di una paziente ricognizione delle tradizioni figurative familiari al poeta: con Tura l’abbiamo definita una filologia o, se si preferisce, una archeologia dell’immaginazione. Perseguita nella consapevolezza che – tranne rari casi - è velleitario tentare di rintracciare una trama di puntuali citazioni di opere figurative. Altrettanto fragile ogni tentativo di individuare modelli reali per le immaginifiche invenzioni spaziali ariostesche, che non si curano di una plausibilità architettonica e sono spesso in continuità con tradizioni ecfrastiche precedenti.

Più fertile ci è sembrato creare in mostra dei campi di forza fra artisti, letterati e pubblico per evidenziare una condivisione di culture letterarie e visive, costantemente intrecciate. Nella Minerva che scaccia i vizi di Mantegna per Isabella d’Este (a cui a Mantova, nel 1507, Ariosto narra un primo abbozzo del Furioso) un albero con sembianze umane ha arrotolato intorno a sé un cartiglio, con scritture in alfabeti antichi. Davanti ad esso in mostra troverete una lira da braccio antropomorfa, realizzata a Verona negli stessi anni, con un cartiglio in greco. Nel sesto canto del Furioso è Astolfo ad essere stato trasformato da Alcina in un cespuglio di mirto parlante. Potremmo continuare con la spada di Francesco I, bottino di Carlo V dopo la sconfitta di Pavia, posta di fronte al grande arazzo coevo della battaglia che rappresenta la cattura del re francese. Su un piano diverso, troverete la grande sfera di bronzo proveniente dall’obelisco vaticano, a simboleggiare la concezione della luna “metallica” che Ariosto condivideva con Leonardo. O il disegno del 1516 in cui Dürer immagina la statua di un re medievale tedesco per il mausoleo di Massimiliano I a Innsbruck, una operazione concettualmente simile, per immagine e non con i versi, a quella di Ariosto con Carlo Magno.

Questa mostra è dedicata all’Orlando Furioso (e, per parte mia, al suo studioso Marco Praloran). Accostargli Raffaello, Michelangelo, Bramante o Tiziano non è una accademica contabilità di debiti e crediti, ma la ricerca di ciò che Cesare Gnudi definì accordi profondi e naturali assonanze. Gli anni del Furioso sono quelli della stanza della Segnatura, della volta della Sistina, del nuovo San Pietro, delle Prose del Bembo. Una coralità polifonica, che ha in comune la costruzione di un linguaggio artistico, in arte come in letteratura, in grado di superare le identità regionali per divenire lingua nazionale. Tutto ciò avveniva in una penisola frantumata in litigiose realtà politiche, in balia delle potenze europee. In quella Italia in crisi, fu la cultura a credere e scommettere in una identità comune in cui riconoscersi, unificando il paese a partire dalla lingua e da un’arte che da allora trionfò in tutto il mondo come l’arte del Rinascimento italiano. E oggi?

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