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Strade e storie di porcellana

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Arte

Strade e storie di porcellana

Edmund de Waal si definisce un “vasaio”. In effetti, sono cinquant’anni che si cimenta nella produzione di raffinati vasi di porcellana che sono entrati nel cuore dei collezionisti e nelle sale dei musei. Eppure, la fama universale De Waal l’ha ottenuta non grazie ai vasi ma grazie a un libro a dir poco magnifico: Un’eredità di avorio e ambra pubblicato nel 2011 (in Italia da Bollati Boringhieri). Un successo editoriale planetario, dovuto alla straordinaria storia che il libro affronta con sensazionale ritmo narrativo, ovvero le avventure della celebre famiglia degli Ephrussi (da cui De Waal discende) legate dal possesso di una collezione di «netsuke» sopravvissuta intatta a tutte le vicissitudini del secolo breve.

In questi anni Edmund de Waal ha ripreso la sua attività di maestro della porcellana e ha provato a concentrarsi sull’attività artistica. Ma la tentazione della scrittura è tornata a farsi potente, per cui invece di tenere sempre le «mani in pasta» ogni tanto le ha posate sul computer. Ed ecco che è nato il suo secondo capolavoro, La strada bianca. Storia di una passione, tradotto in italiano da Carlo Prosperi, sempre per Bollati Boringhieri.

La protagonista è lei, la bianca e trasparente porcellana. Il libro però non è una storia della preziosa materia bensì un coinvolgente diario di viaggio che Edmund de Waal ha redatto dopo aver visitato personalmente i luoghi più significativi della produzione, lavorazione e commercio della porcellana: da Jingdezhen a Venezia, da Versailles a Dresda, dalle colline della Cornovaglia ai Monti Appalacchi in South Carolina. Con due tappe finali, inattese e sinistre, nella spaventosa Germania di Hitler e nell’altrettanto spaventosa Cina di Mao, dove la produzione di porcellane a scopi meramente ideologici provocò la persecuzione e la morte di centinaia di persone.

Ma proviamo a seguire il viaggio del “vasaio”. La prima tappa dell’itinerario è alle radici della porcellana nella città di Jingdezhen in Cina. De Waal ci arriva debitamente documentato. Ha letto Marco Polo, il primo europeo a menzionare le «scudelle di porcelane» cinesi e il primo a portarne esemplari a Venezia. Le «porcelane» suscitarono sommo stupore negli europei che non sapevano fabbricarle: erano oggetti evidentemente fatti di terra eppure lasciavano filtrare la luce, erano sottilissime eppure erano durissime, e poi erano in grado di resistere all’acqua e al calore. L’approdo a Venezia delle porcellane scatenerà in Europa il desiderio irrefrenabile di possederle. E questo nonostante i prezzi altissimi (non caso la porcellana sarà chiamata «oro bianco») e il nome stesso di porcellana, la cui origine non è propriamente aulica: la parola indicava in veneziano una particolare conchiglia dei mari orientali (la ciprea) che aveva la forma e il colore della «porcelletta», vale a dire della vulva della scrofa.

Marco Polo non fu in grado di descrivere esattamente con quali materie e con quali procedimenti i cinesi riuscissero a produrre le porcellane. Le sue descrizioni confusero e depistarono, tant’è vero che nessuno per secoli in Europa fu in grado, leggendo i suoi resoconti, di carpire l’«Arcanum», ovvero il segreto della porcellana.

Per il suo viaggio Edmund de Waal ha dunque bisogno di appoggiarsi ai più precisi resoconti dei Padri Gesuiti presenti in Cina tra il XVII e il XVIII secolo. Nella fattispecie a quelli redatti da padre François Xavier d’Entrecolles che al sorgere del Settecento venne mandato in Cina e qui comprese (e fu in grado di descrivere con chiarezza) da che cosa la porcellana fosse composta e come la si ottenesse. L’acuto gesuita osservò che la porcellana era formata da due sostanze: il petunzè o «roccia porcellana» (che va triturato e rende la porcellana dura e traslucida) e il caolino o «argilla porcellana» (che garantisce l’elasticità all’impasto). Petunzè e caolino dovevano essere mischiati in giuste dosi e cotti ad altissima temperatura per subire il processo di vetrificazione. Dove si trovavano queste materie prime? Nei dintorni di Jingdezhen, la città che - non a caso - fornì per migliaia di anni i vasi a tutto il resto della Cina, corte imperiale compresa. La corte imperiale cinese era una vera idrovora di porcellane. Il numero dei pezzi ordinati a Jingdezhen dalle varie dinastie lasciano a dir poco stupefatti. Si tratta di decine e decine di migliaia di pezzi, quasi sempre con destinazione sacra e liturgica. Nel 1600 l’imperatore Yongle diede addirittura ordine di costruire a Nachino un edificio tutto in porcellana: una pagoda ottagonale alta 80 metri, divisa in nove piani con centinaia di campanelli appesi ai tetti spioventi. Questo strabiliante edificio diventò celebre anche in Europa grazie a descrizioni e incisioni. E i ceramisti di Delft presero la pagoda di Nanchino a modello per i loro caratteristici «vasi da tulipani». Ma nessuno di loro riuscì a comprendere la ricetta della porcellana.

Invece, il nostro padre gesuita l’aveva sostanzialmente capita. De Waal vola a Jingdzhen per verificare. Sulle orme di padre D’Entrecolles visita il monte Gaoling o Kaoling (in cinese «collina alta»), a settanta chilometri dalla città, dove si estraeva (e si estrae) la bianca argilla della porcellana. D’Entrecolles racconta che questa materia prima veniva portata a valle su zattere fino a Jingdzhen e qui mischiata alla pietra di pe-tun-tse sbriciolata nei mortai. Il padre gesuita osserva, scrive e spedisce i suoi resoconti in Francia, dove regna re Luigi XIV nello splendore di Versailles. A corte c’è chi si interessa a questi resoconti. Il re Sole se ne interessa solo superficialmente: suggestionato dalla pagoda di Nanchino, il sovrano fa costruire nel parco di Versailles un Trianon di “porcellana” che in realtà è di maiolica olandese e infatti, alle prime piogge, va in rovina. Ben più attenti ai resoconti dei Gesuiti si rivelano invece il filosofo Leibniz e l’economista Colbert. Quest’ultimo ha già impiantato una fabbrica di “porcellana” ad imitazione di quella cinese. Ma adesso vuole la porcellana vera, il vero «oro bianco». Colbert ha bisogno di qualcuno che capisca e traduca in pratica le descrizione che hanno fatto i Gesuiti, qualcuno che sia in grado di svelare l’«Arcanum». Questo qualcuno esiste e si chiama Ehrenfried Walther von Tschirnhaus, è un giovane matematico tedesco chiamato in Francia come tutore del figlio di Colbert. In realtà, al matematico tedesco non interessa tanto la porcellana quanto la luce: come si muove la luce? E da dove proviene il calore che emana? Per rispondere a queste domande Tschirnhaus costruisce lenti e specchi ustori di grande qualità. Alla porcellana giunge tangenzialmente: perché la luce penetra attraverso la porcellana? Tschirnhaus avrebbe dovuto occuparsi di queste questioni a Parigi, ma, appena giunto in Francia, il suo protettore Colbert muore e il matematico deve rientrare in Germania.

Qui incappa in Augusto il Forte, Elettore di Sassonia e re di Polonia, che si è messo in testa un fermo obiettivo: produrre artificialmente l’oro. In questa sua fissazione, il sovrano cade ovviamente vittima di molti “alchimisti” truffatori. Uno di loro è un garzone di farmacia a Berlino e si chiama Johann Friedrich Böttger. Dopo aver “creato dal nulla” una pepita d’oro, Böttger viene prontamente arrestato da Augusto il Forte che lo rinchiude delle segrete di Dresda con l’ordine di rifare l’esperimento. Pena la morte. Böttger è evidentemente nei guai. A Tschirnhaus, invece, l’improbabile riproduzione dell’oro non interessa. Gli interessa piuttosto capire come sono fatte le cose e come possano mutare. La porcellana è per lui un bel campo di sfida. Intuisce che deve prima identificare gli esatti ingredienti, e così viene a Dresda perché la Sassonia è ricca di minerali tra i quali, forse, ci celano i componenti della porcellana.

Nella Firenze dell’Elba i destini di Böttger e Tschirnhaus si incrociano. Anche De Waal lascia la Cina e parte per Dresda. Con lui visitiamo la città, partendo dal Palazzo Giapponese, dove Augusto il Forte aveva fatto collocare le sue incredibili collezioni di porcellane cinesi e giapponesi, compresi i notissimi «Vasi dei dragoni», così chiamati perché li ottenne dal re di Prussia cedendo in cambio di un reggimento di dragoni. E poi visitiamo lo Zwinger, dove nel Dopoguerra le collezioni cinesi e giapponesi dell’Elettore sono state fastosamente allestite. Per procurarsi questi manufatti, Augusto il Forte aveva speso cifre indicibili. Tschirnhaus, appena giunto sulle rive dell’Elba, si era reso conto che i cinesi succhiavano il sangue dei sassoni attraverso la vendita delle porcellane. Era giunto il momento – aveva meditato il matematico – di sostituire la porcellana cinese con quella sassone. Così chiese ed ottenne da Augusto di istituire un’Accademia delle Scienze dove realizzare i suoi esperimenti. E poi si mise a viaggiare per vedere a che punto erano gli altri: a Saint Cloud, a Versailles e a Delft vide che tutti erano in alto mare.

Böttger, intanto, avrebbe dovuto produrre oro per Augusto e, ovviamente, privo della libertà, non era in grado di farlo. Accampò un sacco di scuse presso il sovrano, ma a un certo punto ebbe un’idea geniale: chiese di essere aiutato e assistito nel suo lavoro. E il re accettò e lo mandò a lavorare nella nuova Accademia accanto a Tschirnhaus. Böttger colse l’occasione del trasferimento per svignarsela. Scapperà più volte e più volte verrà riacciuffato dalle guardie dell’Elettore e riportato a Dresda. Tschirnhaus offrì a Böttger un’autentica via di salvezza: perché invece di continuare nella falsa ricerca della ricetta dell’oro non concentrarsi sulla ricerca della vera porcellana? Böttger capì che questa sarebbe stata per lui la via di scampo, e anche Augusto si disse disposto a dargli quest’ultima chance. Fece prelevare il farmacista-alchimista da Dresda e lo fece rinchiudere nella più sicura fortezza di Meissen: sarebbe uscito di lì solo dopo aver scoperto la ricetta della porcellana. In questo inferno di fuoco e di calore - assistito da Tschirnhaus che lo spinse ad essere sperimentale, metodico e sistematico nella ricerca degli ingredienti e del loro giusto dosaggio – Böttger provò e riprovò con diversi impasti, dosaggi e temperature. Nel 1706 produsse un pezzo realizzato in argilla rossa e quarzo che era più simile a una pietra dura che a una terracotta. In più era bellissima. Era questa la porcellana? No, ma era un materiale del tutto nuovo, che sembrava una pietra preziosa: venne battezzata «diaspro-porcellana». La conquista dell’«Arcanum», tuttavia, era vicina. Il 17 gennaio 1708 Böttger infornò sette vasetti ottenuti mischiando argilla bianca proveniente da Colditz e alabastro. Al quinto esperimento, con le dosi di sette parti d’argilla bianca e una di alabastro e cinque ore di cottura ad altissima temperatura, i vasetti vennero tolti dal forno. Uno fu attentamente esaminato e, tra lo stupore generale, apparve meravigliosamente «album, pellucidatum et optimum» (bianco, traslucido e ottimo). Böttger aveva raggiunto la meta: dopo 400 anni dall’arrivo delle prime porcellane cinesi in Europa, a Meissen il farmacista-imbroglione era riuscito a ricreare la porcellana.

La notizia fece il giro del mondo. Il 24 aprile 1708 Augusto fondò la manifattura di porcellana e il 9 ottobre vennero prodotte le prime tazze. L’11 ottobre Tschirnhaus morì. La ricetta “segreta” di Böttger trapelò presto e in Europa sorsero velocemente altre manifatture di porcellana. Poi, alla morte di Böttger, Johann Joachim Kändler raccolse il testimone della manifattura di Meissen.

A questo punto, Edmund de Waal decide di lasciare la Germania e seguire la pista della porcellana inglese, che venne scoperta da William Cookworthy, farmacista di Plymonth, per una via diversa da quella percorsa da Tschirnhaus e Böttger. Leggendo anch’esso i resoconti del gesuita D’Entrecolles, Cookworthy non solo capì esattamente quali fossero gli ingredienti di cui il religioso parlava (il caolino e il petunzè) ma li ritrovò in grande abbondanza in Cornovaglia: a Tregonning Hill identificò addirittura un’intera montagna di caolino. L’Inghilterra avrebbe potuto produrre porcellana con gli stessi esatti ingredienti della porcellana cinese. Un bel vantaggio. Possedere la materia prima autentica avrebbe dato al Paese un oggettivo primato sulla produzione. E De Waal, a questo punto, fa entrare in scena un nuovo e intraprendente protagonista: il suo nome è Josiah Wedgwood. Sarà lui a diventare il “re” della porcellana inglese, assorbendo il brevetto di Cookworthy e ampliando all’America (in particolare al Monte Ayoree in South Carolina) le ricerche dei giacimenti di finissimo caolino.

Magnifiche sorti e progressive? No, il finale del libro di De Waal è inaspettatamente amaro. La “strada bianca” della porcellana si macchia nel Novecento di nero e di sangue. In Cina la millenaria produzione di porcellana subisce una drammatica battuta d’arresto con la rivoluzione culturale di Mao. Il Timoniere ordina di abbattere la “vecchia cultura” e la città di Jingdezhen, con la sua secolare produzione di porcellana, rappresenta la quint’essenza del “vecchio”. Nel 1966 i laboratori di Jingdezhen vengono distrutti, i vecchi maestri trascinati per strada e sottoposti a pesanti umiliazioni, le loro case abbattute. Nella secolare capitale della porcellana cinese sopravvisse solo una seriale produzione di statuette e di profili di Mao, da regalare ai fratelli comunisti di tutto il mondo.

Ma in Germania, la seconda patria della porcellana, capitò senz’altro di peggio. Orgogliosi del loro passato, i nazisti fondarono la manifattura di Allach, un sobborgo di Monaco di Baviera, vicino al campo di concentramento di Dachau. Qui si produssero pezzi propagandistici e dozzinali che avevano sul retro, invece delle spade incrociate di Meissen, il simbolo delle SS. Ma non è questo l’orrore. L’orrore sta nel fatto che dal 1940 in poi gli “operai” della manifattura di Allach altri non furono che gli internati di Dachau sottoposti a programmi di “lavoro” spaventosi: i prigionieri dovevano produrre porcellane a oltranza e, producendole, dovevano progressivamente sfinirsi e morire.

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