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Il «Taccuino segreto» e l’amor fati

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Il «Taccuino segreto» e l’amor fati

Sono trascorsi venticinque anni dalla pubblicazione sulla «Stampa» (8 agosto 1990), a cura di Lorenzo Mondo, del cosiddetto Taccuino segreto di Cesare Pavese e resiste più di un sospetto sulla sua autenticità, mentre ci si sforza di trovare plausibili giustificazioni a quella serie di annotazioni che inequivocabilmente smentiscono la vulgata antifascista dell’impegno dello scrittore, che pubblicherà la storia dei mesi trascorsi nel Collegio Trevisio dei padri Somaschi a Casale Monferrato - La casa in collina - insieme alla cronaca del suo “confino” calabrese - Il carcere -, accostando sotto il titolo Prima che il gallo canti (1948) la condanna subita per antifascismo alla latitanza durante la resistenza.

In realtà, ogni volta che ci si trova di fronte a fatti documentati che smentiscono la ricostruzione della storia novecentesca alla luce di una contrapposizione ideologica che diventava anche morale, dividendo il mondo e la società in due fronti contrapposti senza possibilità di riconciliazione, l’incredulità o la manipolazione restano le reazioni più immediate e diffuse.

Il caso di Pavese, e con lui dell’amico Giaime Pintor, resta esemplare, perché, se si esclude l’antica reazione di Moravia al suo suicidio, che lo accusava di «decadentismo» il che nel ’50 equivaleva a collocarlo a destra, in questi lunghi decenni gli “amici”, tanto più einaudiani, gli affibbiarono stravaganti etichette che difficilmente resistevano a una verifica fattuale: comunista ai tempi del Compagno e dei rari articoli sull’«Unità», comunista cristiano insieme a Balbo e Motta per i saggi su «Cultura e realtà», antropologo sociale, nascosto dietro De Martino, durante la collana “viola”, vichiano e idealista come teorico del mito, in ogni caso “neorealista” e progressista come narratore nel dopoguerra.

Ebbene il “taccuino” venne archiviato come testimonianza di un momento di smarrimento e debolezza, ignorando i riscontri che avrebbero potuto suggerire una rilettura complessiva della figura intellettuale di Pavese, che nella spartizione tra fascisti e antifascisti non riusciva a ritrovarsi e mal si adattava anche alla collocazione in una neutra “zona grigia” che semplicemente aspirava a veder finita la guerra: in realtà Pavese, soprattutto dopo l’incontro e l’amicizia con Pintor -per il quale è valsa la medesima logica storiografica quando si dovette prendere atto della sua partecipazione alla conferenza degli intellettuali nella Weimar nazista (1941)-, esplorò la cultura filosofica e letteraria tedesca attento alle sue voci più originalmente “irrazionaliste”, da Nietzsche a Schmitt, a Jünger, da Mann a Kerenij, non solo studiandone la lingua, ma ricostruendo la mappa, allora ignorata, di un altro mondo, animato da segrete pulsioni psichiche e psicologiche, da forti tensioni mitiche e religiose, e soprattutto da una radicale insoddisfazione di fronte alle risposte razionaliste di un materialismo scolastico e dogmatico.

Colpisce in Pavese il confronto con il Nietzsche maturo di La volontà di potenza, del quale tradusse i primi capitoli, ora pubblicati da Francesca Belviso, che suggerisce l’Amor fati nietzschiano come chiave di lettura per intendere l’approccio di Pavese al suo Novecento dionisiaco e selvaggio, cui riconduce anche il Taccuino e riduce, invece, a espediente la sua militanza comunista.

Bisognerà pur prendere atto che il Novecento, avanguardistico e rivoluzionario come è stato disegnato, a Pavese restò sempre estraneo e distante, fino al punto di volersene in ogni modo liberare; certo, il suo disagio aveva cercato di mascherarlo, mimetizzandosi come poteva, e il disegno di un’altra cultura, ricercato e inseguito, gli era sempre sfuggito dissolvendosi in fuggenti bagliori.

Per lui la letteratura non era la vita e neppure la vita si risolveva nella letteratura, per lui il Novecento aveva ogni volta fallito e il vuoto che la morte di dio aveva scavato era rimasto incolmato dai progetti ideologici o dai disegni rivoluzionari: denunciare gli anatemi moralistici su nazismo e fascismo, su «queste storie delle atrocità che spaventano i borghesi», significa non capire la tragedia di quella modernità iniziata con la rivoluzione francese, mostrando che «la storia non va coi guanti».

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