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Il «borghese corsaro» fuori dal mito

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Il «borghese corsaro» fuori dal mito

  • –Raffaele Liucci

Cominciai a occuparmi di Longanesi nel lontano 1994, per merito di… Silvio Berlusconi. All’epoca ero uno studente universitario e la sua clamorosa vittoria alle elezioni del 27 marzo, quando sbaragliò la «gioiosa macchina da guerra» capitanata dal post-comunista Achille Occhetto, colse tutti di sorpresa. Dopo il crollo del fascismo, la destra sembrava essersi volatilizzata in Italia. È vero: c’erano i missini, gli eredi ufficiali del duce, ma erano emarginati in un «ghetto». C’era la sparuta destra liberale di Einaudi e Malagodi, ma si trattava di una destra soprattutto economica. C’era la destra cattolica, ma era invisibile ai più, confinata nelle ovattate stanze vaticane e in circoli quasi esoterici. C’erano giornalisti del calibro di Montanelli, ma egli stesso, quando non si celava sotto pseudonimo, preferiva definirsi conservatore piuttosto che uomo esplicitamente di destra. Però la destra esisteva eccome, quale «fiume carsico» (Roberto Chiarini) infine riportato alla luce da Berlusconi, grazie all’implosione della prima repubblica. Per inquadrare il successo di Forza Italia, occorreva dunque andare alla ricerca delle radici sepolte della destra nostrana: e cioè a Leo Longanesi.

Fu proprio lui a incarnare appieno questa destra magmatica. Nato nel 1905 a Bagnacavallo, scrittore, pittore, giornalista ed editore, dal 1945 al 1957 visse l’ultimo e febbrile spicchio della sua breve esistenza. Presto affiancato da Indro Montanelli, Giuseppe Prezzolini e Giovanni Ansaldo (ossia quanto di meglio offriva la piazza antipartigiana), Longanesi si trasformò nel più arguto megafono dei connazionali passati dal fascismo al post-fascismo, senza mai lasciarsi «contaminare» dalla Resistenza. La sua casa editrice, fondata a Milano nel ’46, esibirà un catalogo di libri revisionisti ante litteram, mentre «il Borghese», il quindicinale (poi settimanale) politicamente scorretto da lui lanciato nel ’50, accoglierà i primi barlumi della destra sommersa «sdoganata» da Berlusconi.

Eppure, Longanesi è sempre stato un personaggio tanto citato quanto poco conosciuto. I rari studi storici a lui dedicati sono di norma ignorati dai giornalisti e divulgatori, attratti più dai suoi scintillanti aforismi o dai dissacranti disegni che non dal ruolo effettivamente svolto nella storia d’Italia (un destino analogo, del resto, è toccato anche al suo più illustre allievo, Indro Montanelli: oggetto di una miriade di libri e rievocazioni aneddotiche prive di spessore scientifico, senza contare la mediocre cura filologica dei suoi diari ed epistolari, che certo avrebbero meritato una migliore valorizzazione). Soltanto gli scavi d’archivio e gli spogli bibliografici capillari permettono di ricomporre il mosaico longanesiano. Fondamentale, il suo lussureggiante carteggio con il giornalista Giovanni Ansaldo, talentuoso navigatore nei marosi della politica: dapprima antifascista gobettiano, poi aedo del regime, infine direttore dal 1950 del filogovernativo «Mattino» di Napoli.

Dunque, perché Longanesi è così importante? Innanzitutto, perché ricostruire la sua vita «equivale a ripercorrere la storia delle vicende politiche, letterarie e artistiche d’Italia dal 1926 a oggi»: sic nel 1942 lo scrittore Giuseppe Raimondi. Allora Longanesi era ancora abbastanza giovane, ma già premiato da una carriera folgorante, enfant terrible del fascismo. La frase di Raimondi ben si attaglia anche all’ultima fase della sua vita, quando Longanesi fece del «Borghese» il luogo di raccolta di almeno tre tipologie di destra: la destra neofascista, la destra conservatrice (e anticlericale) di ascendenza risorgimentale e la destra «apota», alla Prezzolini. Ma quel foglio milanese espresse soprattutto una «antideologia». Un’avversione, cioè, alle ideologie del tempo, alla storia ufficiale, all’arco costituzionale, alla mistica della Resistenza, alla democrazia dei partiti. Il tutto rinvigorito da un tenace anticomunismo.

In secondo luogo, Longanesi è stato un influente maestro di giornalismo. Oltre al «Borghese», ha fondato almeno due altre grandi testate: «l’Italiano» (1926-42) e «Omnibus» (1937-39), il padre del moderno rotocalco italiano, dove si faranno le ossa virgulti quali Mario Pannunzio, Arrigo Benedetti, Ennio Flaiano. Nel secondo dopoguerra, la scuola longanesiana si dividerà in due tronconi: l’uno di centro-sinistra («Risorgimento Liberale» e «Mondo» di Pannunzio, «Europeo» ed «Espresso» di Benedetti) e l’altro di centro-destra, dove primeggerà Indro Montanelli, capace di conquistarsi un pubblico più assai vasto di quello del maestro (anche grazie alla sua fortunatissima Storia d’Italia, nella quale a tratti riluce l’insegnamento longanesiano). Ma tali divisioni non riusciranno mai a spezzare i mutui rapporti fra i diversi discepoli di Leo, sempre accomunatati dal «gusto dell’intelligenza corrosiva» (Alberto Asor Rosa).

In terzo luogo, Longanesi e i suoi collaboratori furono i primi artefici di quella vulgata zuccherosa sul regime mussoliniano che, per usare le parole di Emilio Gentile, ha «defascistizzato il fascismo», negandone il carattere autoritario e svuotandolo dei contenuti ideologici e razzisti. In questa «memoria indulgente» del ventennio (Cristina Baldassini) si specchiava il cuore pulsante del paese reale, per il quale, in fin dei conti, l’unica vera colpa del duce era stata quella di aver perso la guerra. Onde una rimozione degli aspetti più impresentabili della dittatura littoria. Non a caso, un libro montanelliano del 1947 s’intitolava Il buonuomo Mussolini. Il duce, come scriverà nel 1954 sul «Borghese» Montanelli sotto pseudonimo, aveva mandato «in vacanza balneare poche persone, non uccidendone nessuna, e tirando avanti, a furia di mezze misure, alcune imprese più appariscenti che di sostanza» (curiosamente, i medesimi argomenti riproposti pari pari da Berlusconi nel settembre 2003, in un’intervista al settimanale inglese «The Spectator»).

Per finire, un cenno al presunto anticonformismo di Longanesi sotto il fascismo, ormai minimizzato dagli storici. Come ha dimostrato Ivano Granata in un recente e innovativo volume su «Omnibus» (Franco Angeli), quel settimanale non fu affatto la «stecca nel grande belato del pecorume in camicia nera» magnificata da Montanelli. Fu invece «perfettamente integrato nell’ottica portata avanti dal fascismo», senza mai propiziare «veri atteggiamenti critici nei confronti del regime». In fondo, il vero Longanesi fuori dal coro sarà quello del secondo dopoguerra: quando, pur strizzando l’occhio alla predominante Italia anti-antifascista, restò sempre defilato rispetto all’establishment del tempo, trasfigurandosi in un «borghese corsaro».

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Raffaele Liucci è l’autore di Leo Longanesi, un borghese corsaro
tra fascismo e repubblica , in libreria
dal 29 settembre per Carocci, Roma,
pagg. 176, € 16