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La reputazione e i suoi doppi

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Scienza e Filosofia

La reputazione e i suoi doppi

La bolla dei tulipani. Illustrazione botanica  dello scienziato e naturalista Ulisse Aldrovandi (1522-1605)
La bolla dei tulipani. Illustrazione botanica dello scienziato e naturalista Ulisse Aldrovandi (1522-1605)

Vi ricordate il ritorno di Gordon Gekko nel film Wall Street 2, uscito nel 2010, poco dopo la crisi finanziaria? Finalmente fuori di prigione, Gekko prepara la sua rivincita all’ultimo piano di un lussuoso edificio newyorkese, tutto vetrate e acciaio. Solo e abbandonato da tutti, passa le serate a contemplare intensamente una vecchia stampa appesa a uno dei rari muri dell’appartamento, circondato da vetrate che gli permettono di osservare dall’alto New York, la preda che vuole riconquistare.

La stampa raffigura un bulbo di tulipano. Perché proprio un tulipano? Ebbene, perché una delle più grandi bolle speculative della storia - almeno della storia moderna - riguardò proprio i tulipani. Introdotti dalla Turchia in Olanda nel XVI secolo, divennero l’oggetto di una vera e propria frenesia collettiva: prezzi deliranti, fortune dilapidate per acquistare un solo bulbo, che al picco della speculazione poteva raggiungere un prezzo corrispondente a dieci volte il reddito annuo di una famiglia benestante dell’epoca. Poi il tracollo: nel 1637 i prezzi crollano e i protagonisti di questa follia collettiva si ritrovano in mano nient’altro che grosse patate senza valore…

Perché? Com’è possibile che l’umanità rischi il suicidio economico collettivo, sia pronta a sacrificare il benessere delle generazioni future per il piacere di possedere qualche bulbo di tulipano? La risposta ce la dà proprio Gordon Gekko, vecchio lupo di Wall Street che ha imparato a conoscere i suoi simili: «It’s not about the money». Non è una questione di soldi. L’homo oeconomicus razionale e interessato non rischierebbe il suo futuro e quello dei suoi figli, non sconquasserebbe l’economia mondiale fino ad arrivare alla catastrofe per massimizzare il suo interesse.«It’s not about the money. It’s about the game». È un gioco, un gioco contro gli altri: chi sale e chi scende, chi domina chi, chi dice cosa di chi. È un gioco di reputazione, il gioco favorito dell’animale sociale che deve stringere alleanze, stabilire gerarchie, vincere sugli altri per infine essere, essere presente, essere visibile agli occhi del prossimo, per non scomparire nel nulla, per lasciare una traccia negli altri, un’immagine trionfante di sé, l’unica parte di immortalità che ci è consentita.

La reputazione è un gioco che gli esseri umani giocano da sempre, un gioco di credibilità. Sono credibile se compro i tulipani e, visto che li compro e sono credibile, i tulipani diventano un buon investimento per coloro che mi considerano credibile, e più c’è gente che mi guarda, più io divento credibile e così i tulipani, fino al giorno in cui il castello di carte crolla e scopriamo che, dietro al gioco delle parti, il re è nudo.

Se vogliamo mantenere almeno un briciolo di razionalità nella spiegazione delle motivazioni che ci spingono ad agire, bisogna attribuire anche alla reputazione, e non solo all’interesse, il ruolo di movente dell’azione. È il nostro secondo io, l’io sociale che a volte prende decisioni e guida l’azione. Bisogna allora cercare di comprendere in che senso la reputazione possa essere una motivazione dell’azione. Porre questa domanda significa capire quali siano le teorie nelle scienze sociali contemporanee che sviluppano, o potrebbero sviluppare, modelli dell’azione umana in cui la reputazione è una variabile indipendente, un fattore che, se lo si fa variare, varia con esso l’azione umana. Per esempio, nel caso delle teorie morali, bisognerà analizzare quelle secondo le quali gli individui non agiscono moralmente perché sono motivati dall’amore per la giustizia, ma da ciò che pensano gli altri. Oppure, nel caso delle teorie economiche, bisognerà guardare quelle che considerano la reputazione una risorsa limitata, affermando così che esiste una domanda per questa risorsa che vincola il comportamento degli attori.

Ma, prima di tutto, vediamo qual è l’ontologia di questo nuovo homo comparativus che si delinea all’orizzonte, la cui azione dipende dalle relazioni con gli altri e la cui motivazione è il riconoscimento che gli altri gli daranno.

Gli esseri umani non sono né essenzialmente competitivi né essenzialmente cooperativi: sono comparativi. I risultati delle loro azioni assumono un senso solo se confrontati ai risultati delle azioni degli altri o a una scala normativa di valori. Il valore - che sia morale, epistemico o economico - si crea attraverso scarti qualitativi in un contesto: è il risultato per contrasto di un paragone. Il valore non è nelle cose o nelle persone stesse: come due specchi che si guardano, il valore si crea nella relazione tra le cose o tra le persone, è il prodotto autonomo dello scambio comparativo e non ha altre finalità: creiamo valore per creare valore. Non lo si può ridurre ad altre grandezze che gli preesistono, come l’utilità, la rarità o il lavoro (in economia): il valore è la traccia cognitiva, la generazione di opinioni che qualsiasi interazione produce e che struttura la percezione che abbiamo di noi stessi e degli altri.

L’essere umano «percepisce» il mondo gerarchicamente: afferra la realtà solo attraverso lo scarto valutativo generato da qualsiasi gerarchia. Si tratta di un’attitudine cognitiva che non è solo il prodotto di una certa cultura, ma è radicata nei nostri meccanismi percettivi più profondi. Sappiamo che il sistema percettivo umano è concepito per rilevare contestualmente i cambiamenti e che il modo in cui tratta l’informazione dipende dagli scarti di valore in un dato contesto. I meccanismi percettivi sono costruiti per percepire gli scarti, le variazioni che determinano la salienza del percetto.

L’homo comparativus legge il mondo attraverso gli scarti di valore. Il suo senso dell’oggettività si forgia attraverso questi scarti. Ciò non significa che la realtà intorno a lui non esista o che sia completamente relativa al suo punto di vista. Gli scarti sono inscritti nella dimensione relazionale del suo mondo, nelle miriadi di reti sociali che tessono la sua realtà e che gli permettono di estrarre l’informazione dall’ambiente che lo circonda. Queste reti sono costitutive del suo mondo: non c’è una realtà ultima al di là dell’interconnessione degli eventi. È grazie a queste relazioni che il mondo è percepito e che l’informazione acquisisce un valore.

Ed è così che si crea la nostra identità: per contrasto. La nostra informazione sociale ci accompagna ovunque e ci rende forti e fragili insieme. Forti perché ci permette una sorta di «gestione» della nostra identità, sempre più facile nell’era dei social networks. D’altro canto sappiamo tutti fino a che punto le tracce di noi stessi sono manipolabili e rifrangono, più di quanto riflettano, la nostra immagine in miriadi di frammenti nei quali a volte non ci riconosciamo.

Perché le ragioni che hanno gli altri per parlare di noi sono sempre diverse dalle ragioni che avevamo noi per voler far parlare di noi. Si potrebbe dire che l’impresa identitaria, ossia la costruzione di un discorso su noi stessi in quanto soggetti, che è la marca della modernità contro le identità posticce imposte dai ruoli sociali tipiche delle società premoderne, sia da ripensare daccapo. L’homo comparativus non è né posticcio né autentico: è un soggetto sociale, un essere cognitivo che si costruisce attraverso l’interiorizzazione continua del feedback degli altri, dunque un soggetto per natura doppio, che non può semplificarsi senza dissolversi.

La ricerca dell’autenticità non può essere allora che la ricerca di quel famoso sorriso di Gatsby nel romanzo di Fitzgerald: «Era uno di quei sorrisi rari, dotati di un eterno incoraggiamento […] si concentrava sulla persona a cui era rivolto con un pregiudizio irresistibile a suo favore. La capiva esattamente fin dove voleva essere capita, credeva in lei come a lei sarebbe piaciuto credere in se stessa, e la assicurava di aver ricevuto da lei esattamente l’impressione che sperava di produrre nelle condizioni migliori».

L’autenticità non è altro che l’incontro, raro e perfetto, tra l’immagine che vorremmo dare di noi stessi e il modo in cui siamo visti dagli altri. Diventiamo autentici grazie allo sguardo degli altri. Il nostro ego è doppio ed è nella sua doppiezza che ci motiva. Senza la coscienza dell’interdipendenza tra me e l’immagine di me negli occhi degli altri, tra la mia reputazione e la mia azione, non posso capire né chi sono né perché agisco.

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