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I tesori italiani del Rey

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Arte

I tesori italiani del Rey

Capolavoro ritrovato. Guido Reni, «Saulo cade da cavallo». Il dipinto, dimenticato in un andito, era appartenuto alla famiglia di Gregorio XV Ludovisi
Capolavoro ritrovato. Guido Reni, «Saulo cade da cavallo». Il dipinto, dimenticato in un andito, era appartenuto alla famiglia di Gregorio XV Ludovisi

Le immense collezioni del Museo del Prado sono per buona parte formate dalle raccolte reali spagnole. Il fato volle che fosse un uomo non particolarmente amato, Ferdinando VII (incoraggiato da una delle sue mogli, Maria Isabella di Braganza), ad aver creato quel che allora si chiamava Museo Reale divenuto due anni più tardi, nel 1821, il Museo del Prado. Quasi mezzo secolo dopo sua figlia Isabella II rinunciò alla proprietà personale dei beni ereditati dagli antenati, dando inizio al Patrimonio Nacional. Le opere d’arte di questo complesso non hanno la stessa importanza di quelle del Prado ma non sono comunque cosa di poco momento se si pensa che esse includono le collezioni del Palazzo Reale di Madrid e di quel che si accumula nei vari sitios reales, come l’Escorial, Aranjuez, La Granja, El Pardo, l’Alhambra, gli Alcázares di Siviglia. Come poche collezioni dinastiche europee, quelle spagnole hanno il fascino di ciò che i secoli hanno accumulato nello stesso luogo.

A partire dagli anni Cinquanta la storia dell’arte in Spagna comincia a prestare particolare attenzione alla pittura italiana del Seicento, soprattutto per merito di Alfonso Pérez Sánchez che diede avvio ad un’immensa opera di catalogazione delle antiche pinacoteche della corona sparse nel paese. Gli studiosi spagnoli hanno sempre nutrito un grande interesse per i pittori italiani essendo, lungo il secolo XVII, intere regioni del nostro paese sottoposte alla Spagna, al punto che Napoli può considerarsi la seconda –qualche volta la prima– capitale artistica della Spagna. Tanto è vero che nessun buon conoscitore della pittura italiana può dirsi tale senza essere ben edotto delle collezioni spagnole. Tale è comunque la vastità di questo patrimonio che non tutte le opere esposte nella mostra di cui parlo ora mi erano note. L’esposizione si tiene nel Palacio Real di Madrid ed è curata con attenta precisione da Gonzale Redín che ha coordinato diversi studiosi, sia spagnoli che italiani.

Mi soffermerò su alcuni capolavori. Primo fra tutti è una tela di Diego Velázquez, pittore che molti considerano il coronamento del Seicento italiano. Mi riferisco a La tunica di Giuseppe, una grande tela conservata all’Escorial e dipinta forse a Roma nel primo viaggio in Italia dell’artista, nel 1630. Questo lavoro, di una serena tristezza, perfettamente architettata, è compagno de La fucina di Vulcano del Museo del Prado: non erano stati dipinti per Filippo IV ma vennero entrambi da lui acquistati nel 1634 assieme ad un gruppo di quadri, alcuni italiani, e destinati al Buen Retiro (ma già nel 1665, alla morte del Re, il primo si trovava all’Escorial). Uno dei modelli dei magnifici nudi maschili si vede in ambedue i quadri: per quanto non sia sempre stato notato, il giovane di profilo, con un perizoma rosso, ne La tunica è quello, sempre di profilo, davanti al fuoco nella La fucina. Lo stesso personaggio si ritrova ne La rissa all’Ambasciata di Spagna della Collezione Pallavicini a Roma, attribuita da Roberto Longhi a Velázquez: l’idea fu poi condivisa da Federico Zeri ma non da tutti gli spagnoli. Comunque, verso la fine della sua vita Pérez Sánchez sembrava essere dello stesso parere quando si recò assieme a me a vedere il piccolo rame Pallavicini.

La Salome con la testa del Battista del Palazzo Reale è anche un capolavoro oggi studiato soprattutto dal punto di vista della sua provenienza ancora non completamente svelata. La sua superba qualità è nota sin dal 1927 quando Longhi la fece conoscere per quello che era ed è. Si tratta di uno splendido Caravaggio, uno studio di carattere: quattro teste, quella mozza che svanisce lentamente nel nulla, quella del giovane carnefice forse pentito, quella rugosa della anziana nell’indifferenza triste della vecchiaia, e quella indefinibile di Salome. Non appare qui, come è d’uso, una donna giovane e dissoluta ma una seduttrice perversa, forse come avrebbe voluto Oscar Wilde, colei che sa come l’amore sia la sola cosa più misteriosa della morte. Se il quadro di Velázquez è quello più bello che vedremo oggi, quello di Caravaggio è il più tragico e anche il più poetico. Il primo è un quadro naturale, il secondo è un’allegoria sottile e difficile.

Di tutt’altro carattere –un’invenzione degna del nuovo manierismo- il corpo che si torce su se stesso in una doppia curva, stretto in un arcobaleno rosso e oro, nero grigio e verde, col cielo che crepita nell’istante in cui Saulo cade da cavallo per diventare San Paolo. È un quadro di Guido Reni di cui nulla si sapeva o quasi fino a ieri. In realtà era solo dimenticato in un andito oscuro: nel Seicento era famoso ed era appartenuto alla famiglia di Gregorio XV, i Ludovisi.

Sarebbe lungo elencare tutti i bei quadri della rassegna. Alcuni dipinti napoletani e altri di Lanfranco vennero inviati dai viceré di Napoli, Monterrey e Medina de las Torres. Commissionati per Filippo IV essi sono della più alta qualità desiderabile, come uno dei Ribera, lo Spagnoletto, di cui ci sono altre versioni ma nessuna della stessa classe. Si è prestata qualche attenzione anche agli oggetti di scultura e di arti decorative. Nel catalogo si discute il complesso problema del Cristo crocifisso di Gian Lorenzo Bernini il cui stato di conservazione desta qualche frustrazione. Considerare forse con occhi troppo benevoli una riduzione della Fontana dei Quattro Fiumi del Bernini sembra un po’ azzardato: conosco bene quell’oggetto ma sia per un motivo sia per un altro non riesco a considerarlo un’opera maestra. Ma guardo con i miei occhi.

Un’opera maestra è invece la riduzione in argento del capolavoro marmoreo di Alessandro Algardi con Attila e Leone Magno, un dono del Cardinal Francesco Barberini a Filippo IV. Il tabernacolo in bronzo e pietre dure, firmato a tutte lettere dal senese Domenico Montini nel 1619 a Napoli, è un lavoro di grande ingegno di cui mi sono occupato molti anni fa. Sono felice che Riccardo Gennaioli sia d’accordo con me che quest’opera peculiare meritò un sonetto di Lope de Vega dedicato al Cardinal Zapata, primo acquirente dell’opera. Pubblicai il sonetto nel catalogo della mostra Civiltà del ’600 a Napoli, in versione originale e nella mirabile traduzione che ne fece una meravigliosa amica, Luisa Orioli, alla quale sono grato, da più di trent’anni, per quel prodigioso dono.

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