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L’amore nel tempo di un Café

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Cinema

L’amore nel tempo di un Café

«Café society» di Woody Allen. Kristen Stewart (Vonnie) e Jesse Eisenberg (Bobby)
«Café society» di Woody Allen. Kristen Stewart (Vonnie) e Jesse Eisenberg (Bobby)

Nato il primo dicembre 1935, Woody Allen ha più di ot-tant’anni, e Café Society (Usa, 2016, 96’) è la sua quarantesettesima regia. Gli possiamo credere quando, nel ruolo di io narrante, la sua voce fuoricampo ci avverte che il cinema è un’industria malvagia e cattiva, nella quale cane mangia cane. Anche per questo nella seconda metà degli anni 30 il giovane Bobby Dorfman (Jesse Eisenberg) lascia Hollywood e il suo precario lavoro con lo zio Phil Stern (Steve Carell), agente di gran successo, e se ne torna a New York.

Là, a Brooklyn, lo attendono la madre Rose (Jeannie Berlin) e il padre Marty (Ken Stott), usciti freschi freschi da Radio Days (1987). Con loro ci sono la sorella Evelyn (Sari Lennick) e suo marito Leonard (Stephen Kunken), intellettuale marxista che teorizza e pratica i valori della comprensione del prossimo e della solidarietà. Poi c’è il fratello Ben (Corey Stoll), che s’è fatto una solida posizione economica gettando cadaveri nel cemento armato, spiccia pratica commerciale con cui ha rilevato il night che dà titolo al film.

Torniamo a Bobby e al suo lavoro a Hollywood. In attesa di far carriera, il giovanotto si innamora di Vonnie (Kristen Stewart), segretaria dello zio. È bella, fresca e semplice, Vonnie, ma è l’amante segreta di Phil. Eppure si innamora (anche) di Bobby. Chi sceglierà, alla fine, tra lo spiantato e l’arrivato? Bobby si illude, ma non si illude Allen. Così è la vita, dice da fuori campo, «una commedia scritta da un sadico che fa il commediografo». E qui in entrambi i ruoli c’è lui, l’io narrante ottantunenne che conosce e condivide il lamento del Macbeth scespiriano: «La vita è un’ombra che cammina, un povero attore che si agita e pavoneggia per la sua ora sul palco, e poi non lo si sente più. È un racconto narrato da un idiota, pieno di furia e rumore, che non significa niente».

Ce n’è, di furia e rumore, nella Hollywood del film. Divi e dive, comparse e puttanelle, registi grandi e minimi, produttori, agenti petulanti: tutti si pavoneggiano, e non solo dietro la macchina da presa. In fondo hanno ragione. È la loro ora, prima che escano di scena. Ci sono furia e rumore anche sull’altra costa d’America. Il palco è il night di Ben, che Bobby dirige con tanto acume da riempirlo di ricchi, di intellettuali, di amici intimi di Hitler, di politici, di gangster... È la New York del dopo proibizionismo, con il suo Greenwich Village, il suo grande jazz, i suoi cadaveri nel cemento, e con un sindaco onesto come Fiorello La Guardia (circostanza tanto rara quanto scomoda per i vip che si pavoneggiano fra i tavoli del Café Society).

Su questo sfondo, anch’esso protagonista, la voce fuori campo racconta di Bobby e di Vonnie. I due si rivedono nel night. Lei non è più fresca e semplice come a Hollywood, ed è petulante quanto il marito Phil. Ma è così bella. Lui è meno ingenuo, meno onesto. È quasi un uomo arrivato, infatti. Sul set grandioso del Central Park acceso dai colori dell’alba, Bobby e Vonnie si baciano. E poi? Poi ognuno torna alla sua vita, lei in riva al Pacifico, lui in riva all’Atlantico. L’ora brevissima del loro amore è passata da troppo tempo. Che cosa ne resta? Piccoli rimpianti, che la furia e il rumore di Hollywood e Manhattan faranno ancora più piccoli, prima dell’uscita di scena.

A commento valga quel che si dicono Rose e Marty. Non c’è niente che ci aspetti al termine della commedia, sostiene lui. Ma quando sarà il momento, insiste con piglio combattivo, non starò zitto. Mi farò sentire, accidenti se mi farò sentire. E con chi ti farai sentire, gli obietta lei, se non c’è niente ad aspettarci? Che la pensi così anche Allen? E poi, che la commedia della vita sia non solo breve, ma anche malvagia e cattiva, come l’industria del cinema, con cani che mangiano cani? In ogni caso, è questo il suo quarantasettesimo film. E aspettiamo fiduciosi il quarantottesimo. Può anche esser lunga, meravigliosa e lunga, l’ora del nostro stare in scena. I commediografi sadici e i narratori idioti si rassegnino.

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