Cultura

Scuola inquietante della felicità

  • Abbonati
  • Accedi
Libri

Scuola inquietante della felicità

Di scuola si parla e si scrive molto, a proposito e a sproposito. Lo fa ora, da narratore, Gian Mario Villalta, uno che questa realtà la conosce bene perché vi lavora: oltre a essere tante cose (poeta, romanziere, critico, nonché direttore artistico di una delle manifestazioni culturali più importanti del Paese, il festival letterario Pordenonelegge), è anche insegnante in un liceo. E proprio in un liceo è ambientata la vicenda del suo nuovo romanzo, Scuola di felicità (Mondadori). Nelle prime pagine le tonalità iper-realistiche e in qualche misura espressionistiche sembrano tradire l’insofferenza del protagonista - un docente di Lettere cinquantenne, vedovo da cinque anni - nei confronti di quei mostriciattoli brufolosi che sono gli adolescenti. Poi però, molto presto, si intuisce in lui la presenza di una vocazione pedagogica ben radicata, nonostante la ruvidezza dei suoi atteggiamenti.

Sono molto ben riuscite - brillanti e, a tratti, folgoranti - le pagine dedicate a descrivere la scuola italiana di questi ultimi anni, quando si è deciso di mettere nuovi nomi (spesso ridicole perifrasi) alle cose vecchie: così - per paradosso - l’interrogazione potrebbe diventare presto un’«unità didattica di verifica delle conoscenze attraverso il dialogo formativo», mentre le quinte classi sono già diventate, con sintagma sinistramente ospedaliero, le «classi terminali». Per questo e per altri motivi, la sala insegnanti è un luogo di lamenti, «dove una volta su due qualcuno ti punta e finché non ha sfiatato tutto il suo grande scontento non vuole saperne di mollarti». Così il nostro professore preferisce passare le ore “buche” rintanato in biblioteca, un luogo a cui accede anche - abusivamente - un personaggio che con la scuola non dovrebbe più avere a che fare (di chi si tratti si scoprirà soltanto alla fine del romanzo).

Alla dirigenza dell’istitiuto è giunta da poco, dopo la brusca fine di una carriera politica in Regione, la preside Bardella, donna non cattiva ma fautrice degli slogan del più banale “scolasticamente corretto” degli ultimi governi. A fronte di un calo di iscrizioni, si è messa in testa di rendere attrattiva la sua scuola varando un’iniziativa denominata «La Scuola della Felicità». Essa prevede il coinvolgimento di banche, assicurazioni, imprese di varia natura come sponsor, e allora è chiaro che il modello è quello quello della “scuola-azienda”. Si levano così, da alcuni studenti, voci di protesta, anche perché il nuovo progetto scolastico sembra perfettamente ritagliato a uso e consumo dei figli di papà, dei “fighetti” ricchi e ben vestiti. La protesta comincia a configurarsi come una sorta di lotta di classe, e i “carbonari” sembrano essersi dotati di un sistema segreto di affiliazione. Il protagonista indaga, anche perché gli indizi giungono sotto il suo naso nella forma di varie stranezze commesse dai suoi stessi studenti, fino a scoprire che sotto c’è qualcosa di più grosso. E, forse, di pericoloso.

Questo secondo livello narrativo - vale a dire quello di un mistero che si fa sempre più thriller - è l’elemento che riscatta il romanzo di Villalta da un semplice racconto d’ambiente, essendo assai sapientemente impiegati suspense e climax, capaci di rendere il racconto avvicente per qualsiasi lettore (anche il meno interessato alle tematiche scolastiche). Tuttavia la forza primaria del libro risiede soprattutto - ci sembra - nel primo livello da cui siamo partiti, cioè quello della testimonianza sull’emergenza educativa che attraversa una scuola in cui i vari slogan tanto cari ai politici (dalla “buona scuola” in giù) non hanno alcuna relazione con la vita dei ragazzi (con le loro esigenze, i loro problemi, le loro attese) e dei docenti che ogni mattina, nonostante tutto, entrano in classe puntuali al suono della campanella.

Da qui il rimpianto di uno studente (ma è, verosimilmente, quella dello scrittore-docente) nei confronti di una scuola che oggi rischia di non esserci più: «C’erano gli insegnanti, erano loro che contavano, una volta, e i loro studenti. C’erano insegnanti veri, non... impiegati, gente che viene per fare le ore, scrivere programmi, registri... C’erano insegnanti che insegnavano qualcosa di più della loro insignificante materia». Le derive a cui può portare la concezione di un insegnante che si atteggi in maniera incontrollata a “maestro di vita” sono ben simboleggiate dall’esito della vicenda (che ovviamente qui non sveleremo) narrata da Villalta nel suo romanzo, ma l’appiattimento culturale e ideale a cui porta la burocratizzazione che le varie riforme hanno imposto al ruolo del docente è purtroppo già tangibile.

© Riproduzione riservata