Per il suo esordio in palcoscenico, avvenuto per giunta in una sede impegnativa come l’Olimpico di Vicenza, il cineasta Aleksandr Sokurov ha realizzato uno spettacolo molto personale, con una strana drammaturgia a strati, che si svela a poco a poco, in cui dialoga con le poesie di Josif Brodskij, con la sua unica opera teatrale, Marmi, con dei miti cinematografici, Fellini, Anna Magnani, con la visione di una piazza dell’Italia del Dopoguerra: l’azione composita, insolitamente corale, fa da cornice a un sottile gioco di specchi introspettivo. A dominare il tutto, fin dall’ingresso del pubblico, è quell’idea di città, quella piccola umanità di giovanotti sfaccendati, ragazze del popolo, maturi signori che – indirizzati e guidati da un mercuriale direttore di scena - si distribuiscono lungo tutto lo spazio della ribalta prendendo posto ai tavoli di un caffé, salutandosi, sistemandosi su sedie rivolte verso il fondo. Altre decine di persone, sedute in fila davanti a loro, sono evocate da immagini video proiettate sul pavimento.
Tutto quel movimento suggerisce l’imminenza di un evento: e l’evento è la proiezione all’aperto di un film, Roma di Fellini, le cui sequenze scorrono su uno schermo appeso in alto, ma risalgono anche da una pozzanghera che spacca l’acciottolato della strada, come affiorando dall’inconscio. E l’onirica Roma felliniana, riflessa in quella Roma vagamente neo-realista in cui viene presentata la pellicola, forma il duplice ambiente in cui Brodskij incontra i due protagonisti di Marmi, che sono appunto cittadini di una Roma ambiguamente sospesa tra residui classici e scorci fantascientifici.
Nel testo originale Tullio e Publio sono i detenuti di un inquietante carcere-grand hotel dove tutto è studiato per non far rimpiangere la libertà perduta, e dove si viene rinchiusi non per avere commesso un reato, ma in base a calcoli statistici per cui una parte della popolazione deve restare sempre in cella. In Marmi l’uno raffigura la carnalità, l’istinto, l’altro l’astrazione intellettuale, l’aspirazione ad annullarsi nel tempo. Nello spettacolo diventano dei mostriciattoli metà uomini, metà topi, e incarnano entrambi il lato animalesco della vita, mentre il lato spirituale parrebbe espresso dallo stesso Brodskij. Il culmine emotivo, la sintesi illuminante di questo confronto si raggiunge verso la fine, quando i due – interpretati da Max Malatesta e Michelangelo Dalisi - entrano in una sorta di altare pagano che contiene un’enorme forma di formaggio, finiscono schiacciati in una trappola per ratti e vengono portati via in sacchetti di plastica, ridotti ad avanzi sanguinolenti: il Poeta, che ha il volto di Elia Schilton, intensissimo come al solito, a quel punto cerca (invano?) di rifugiarsi nei propri versi, perdendosi forse nel tempo e nella memoria come invocato dal suo Tullio: guardando nella pozzanghera vede non più Roma ma una foto del vero Brodskij con la moglie, cui dice addio. Prima di uscire, accompagnato dal rumore di un treno, abbraccia un se stesso in calzoni corti, sussurrando accorato: «come è giovane». Un finale struggente, che dà un forte senso a tutto il resto. Nell’insieme, Go.Go.Go è una creazione particolare, che trasmette pochi significati e molte sensazioni, non solo visive. Ciò che più colpisce è l’adozione di una sintassi totalmente cinematografica applicata al teatro: la ricostruzione di un intero paesaggio urbano che si estende anche fuori dal palco, la simultaneità di azioni e dialoghi diversi che quasi sempre si sovrappongono suggeriscono inusitate contaminazioni fra i due linguaggi. Da sottolineare l’apporto scenografico di Margherita Palli e l’impressionante qualità tecnica degli effetti, firmati da Federico Bigi e Matteo Massocco, come il glicine proiettato sulle strutture palladiane. Ma a Milano, dove verrà replicato, avrà certo un’altra forma.
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