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Zandomeneghi impressionista

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Arte

Zandomeneghi impressionista

Zandomeneghi. «Coppia al caffè» (1885),  Fondazione F.C. per l'Arte
Zandomeneghi. «Coppia al caffè» (1885), Fondazione F.C. per l'Arte

Niente paura! Il titolo di questa mostra dedicata, nel centenario della morte di questo popolare ma forse ancora incompreso artista, a L’impressionismo di Zandomeneghi non è il solito slogan ammiccante affidato a quella formula magica per attirare il pubblico, ma corrisponde perfettamente alla singolare vicenda del pittore veneziano. Di temperamento schivo, anche se coraggioso e determinato, è stato l’unico tra gli italiani a Parigi – e pensiamo non solo e soprattutto a Boldini e De Nittis, ma anche ad altri che come, come Corcos e Mancini, sostarono a lungo nella capitale francese – a essere passato senza riserve dalla parte degli Impressionisti. Ma forse proprio il suo carattere e il suo stile di vita, ristretto in un chiuso recinto familiare quando si fece raggiungere dalla madre e dalla sorella, gli hanno impedito di diventare un personaggio come i più estroversi connazionali. Non è stato un formidabile organizzatore di serate mondane come De Nittis o un interprete delle ambizioni dell’alta società internazionale come Boldini. Si è concentrato sulla pittura, facendo prevalere la ricerca formale sul soggetto, che diviene quasi irrilevante, e proprio in questo ritroviamo il suo fascino e la sua modernità. Questa rassegna, la più completa a lui dedicata, intende finalmente rivalutarlo attraverso più di cento tra dipinti ad olio e pastelli, di cui diversi inediti o poco noti.

Il percorso della mostra si concentra soprattutto sulla conversione impressionista e la produzione seguita al trasferimento nel 1874 a Parigi dove restò sino alla morte. Non sono però trascurati gli esordi e la sua prima affermazione tra Venezia, Milano e Firenze, quando ha avuto la forza di prendere le distanze dalla città natale allora divisa tra la nostalgia di un grande passato e il culto dell’intramontabile Canova. Di questo clima si era fatta interprete la famiglia di scultori, in particolare il nonno Luigi e il padre Pietro impegnati nella realizzazione dei due mastodontici monumenti eretti, uno di fronte all’altro nella chiesa dei Frari, in onore appunto di Tiziano e di Canova. Temperamento ribelle, tanto che seguì le camicie rosse di Garibaldi, abbandonò la tradizione familiare, preferendo alla scultura la pittura e aderendo senza riserve alla rivoluzione dei Macchiaioli, tra cui ebbe buoni amici, legandosi in particolare al loro grande sostenitore e critico Diego Martelli, di cui fu spesso ospite a Castiglioncello insieme ad altri esponenti del movimento. Questo sodalizio, cementato da due bellissimi ritratti che Zandomeneghi ci ha lasciato del suo mentore, era destinato a durare per sempre e a consolidarsi quando a sua volta Martelli fu suo ospite a Parigi e ne condivise la difficoltà ad inserirsi. Confessò a Fattori le fustazioni di Federico che «campa e guadagna facendo figurini, industria lucrativa, ma come ti puoi figurare impossibile ad esercitarsi da chi ha nervi di artista, per cui è continuamente tartassato da questo contrasto». Sarà costretto ancora per molti anni a mantenersi lavorando come illustratore di moda, risorsa che gli consentì almeno di non cedere alle lusinghe dei mercanti e della pittura più facile, come fece Boldini, e di schierarsi, dopo un’iniziale diffidenza, dalla parte degli Impressionisti e delle loro coraggiose sperimentazioni, diventando amico di Degas. Fu lui, con cui condivididerà ricerche formali e soggetti, ad introdurlo nel gruppo, facendolo partecipare a quasi tutte le loro mostre.

Martelli divenne orgoglioso dello «Zandomeneghi nostro, che lasciando per sempre i facili guadagni degli altri italiani alla Veloutine Fay, che intascano i soldi delle cocottes, si è messo nella nuova via ed ha esposto nel 1879 una figura di donna spensierata e galante benissimo riuscita per carattere». Egli diventerà uno straordinario interprete, come De Nittis e Boldini, del mondo femminile, della donna parigina rappresentata nella sua intimità, nel segreto dei riti quotidiani e nelle occasioni mondane, tra le passeggiate al Bois e le serate a teatro. Tra le sue modelle ritroviamo la musa degli Impressionisti Suzanne Valadon che ha ritratto in più occasioni, come in quel magnifico interno del Caffè della Nouvelle Athènes, che a Place Pigalle fu il loro luogo di ritrovo. Ma ci ha lasciato anche indimenticabili squarci di Parigi, rappresentati con un taglio ed uno stile così moderno, da anticipare il divisionismo di Seurat, come in quei due capolavori assoluti che sono Le Moulin de la Galette e Place d’Anvers. Amato da Degas, Sisley, Pissarro, Renoir, Toulouse-Lautrec, non era capito dagli altri italiani con la solita eccezione di Martelli. Egli era stato l’ unico a comprendere la rivoluzione dell’ Impressionismo su cui terrà una memorabile conferenza a Livorno nel 1879, dove lodò «immensamente» Zandomeneghi «perche è il solo fra gli italiani che si sia aggruppato a questa falange di indipendenti» e in un ambiente come quello parigino, dominato dall’«arte vendereccia», ha «saputo salvare il suo robusto ingegno, che si assimila e si associa alla gente per bene, che fa l’ arte per l’ amore del vero e non per conio».

Questa intransigenza gli costerà cara, ancora anni di difficoltà a sbarcare il lunario, sino al riscatto avvenuto verso la fine del secolo, quando fu scoperto e valorizzato dal grande mercante degli Impressionisti Paul Durand-Ruel che lo fece lavorare sodo, gli organizzò una serie di mostre personali e gli schiuse gli orizzonti dorati del collezionismo americano. Ma il grande momento del riscatto del «pauvre Zandomeneghi», come l’aveva chiamato Degas, avverrà proprio in patria, nell’abbandonata Venezia dove tornò trionfante nel 1914, due anni prima della morte, quando la Biennale gli dedicò un’importante retrospettiva ordinata da Vittorio Pica che con Ojetti può considerarsi il suo primo vero interprete critico. Questa rivalutazione non avvenne senza scandalo e la critica ufficiale, rappresentata da Thovez tuonò contro la «miseria intellettuale e sentimentale», la «pittura stentata e meschina» di questi benedetti Impressionisti, di cui il veneziano era stato l’ unico seguace italiano.

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