Cultura

La forza di Goldi Petzenbaum

  • Abbonati
  • Accedi
le origini

La forza di Goldi Petzenbaum

Nella narrativa di Elena Ferrante non si vedono tracce della storia personale di Anita Raja. I drammi descritti sono quelli dei bassi napoletani, dell’immediato dopoguerra italiano, degli anni di piombo, sono le prepotenze sociali e le sopraffazioni sulle donne. Nessuno dei suoi libri lascia trapelare segni delle tragedie vissute dalla famiglia materna di Raja - dei pogrom in Polonia, delle persecuzioni naziste in Germania, dei soprusi razziali in Italia o della grande bestia dell’Olocausto che in tre anni ha divorato i bisnonni e una dozzina di altri suoi familiari.

Ma è legittimo il dubbio che l’attrazione che Ferrante ha dichiarato di avere per quelle che definisce «immagini di crisi» e «affacciarsi sul tremendo» sia in qualche modo legata alla storia di Golda Frieda Petzenbaum, detta Goldi, la madre di Anita Raja.

Piccolina – era alta un metro e sessanta - capelli rossi e occhi azzurri, Goldi ha vissuto la peggior tragedia del XX secolo uscendone capace di quell’impresa che in un suo saggio Anita Raja attribuisce alla Cassandra di Christa Wolf: «Ricostruire una fisionomia autonoma del femminile per muoversi al di fuori dei ritmi temporali imposti in epoche di orribili macellai».

Da giovane Goldi è sopravvissuta alle discriminazioni, prima naziste e poi fasciste, al confino, alla fuga nella notte verso la Svizzera e poi a quasi due anni in diversi campi per rifugiati. Da adulta, a 53 anni, dopo la morte del marito, il magistrato napoletano Renato Raja, si è reinventata rituffandosi nella lingua dei suoi parenti (e dei suoi persecutori), il tedesco, andando a insegnarlo in una scuola privata di Roma e co-pubblicando due libri di grammatica con la germanista romana Elisabetta Mattioli. Nonostante siano passati 30 anni dalla sua morte, il 12 maggio 1986, Mattioli la ricorda ancora perfettamente: «Era una donna simpatica, spiritosa, creativa, intellettualmente molto vivace, e con un grande senso dell’ironia».

Eppure la vita aveva segnato Goldi come poche altre persone. Nata nel 1927 a Worms da genitori fuggiti dalla Polonia, aveva lasciato la Germania con la famiglia a dieci anni. Nel 1937, essendo la vita divenuta insopportabile per gli ebrei, suo padre Abraham, detto Wrumek, decise di cercare rifugio in Italia, dove arrivò il 18 ottobre con la moglie Sally Regina e l’unica figlia rimasta (l’altra, Fanny Gisela, era morta ancora bambina in Germania).

Scelsero Milano, andando a vivere in via Sangallo, zona Città Studi. Ma la serenità non era nelle carte per la famiglia Petzenbaum. Il 18 settembre dell’anno successivo, dal balcone del Municipio di Trieste, Mussolini annunciò i primi «provvedimenti per la difesa della razza» che avviarono le persecuzioni fasciste contro gli ebrei, in particolare quelli stranieri.

Il 15 giugno 1940, cinque giorni dopo l’entrata in guerra dell’Italia, il ministero dell’Interno emanò un ordine di arresto per tutti gli ebrei stranieri, al fine di smistarli in campi d’internamento appositamente allestiti in località dell’Italia centro-meridionale.

Il 12 luglio il ministero stabilì che Sally e Goldi dovevano essere trasferite in un paesino in provincia di Cosenza, Spezzano della Sila, e Wrumek internato a Urbisaglia, in provincia di Macerata, dove era stato allestito un campo di concentramento maschile nel palazzo dei conti Giustiniani-Bandini, adiacente all’Abbadia di Fiastra.

Da una successiva nota della Prefettura apprendiamo che il 24 luglio, «col treno accelerato n.1351 in partenza di Milano alle ore 5,07, debitamente accompagnati da Agenti di P.S. saranno avviati al campo di concentramento di Urbisaglia n.41 ebrei tedeschi». Wrumek era di nazionalità polacca, ma nella disposizione del Ministero con cui veniva ordinato il suo internamento era identificato come “ebreo tedesco”. Tutto lascia dunque pensare che su quell’accelerato ci fosse anche lui.

Dalla «Scheda individuale - Campo di concentramento internati Abbadia di Fiastra» risulta essere stato registrato all’una di notte del 25 luglio 1940.

Dieci giorni dopo Sally e Goldi arrivarono a Spezzano, dove invece non vi era alcun campo. Era una sorta di confino. Per nulla rassegnata, pochi giorni dopo l’arrivo in Calabria, Sally chiese il ricongiungimento con il marito. Ma il 28 settembre 1940, in una lettera alla Prefettura di Cosenza, il Ministero dell’Interno rispose che la domanda «non può essere accolta». Il nullaosta ministeriale arrivò il 5 novembre, anche se Sally e Goldi dovettero aspettare fino al 16 di quel mese per riabbracciare il familiare a Spezzano.

Un anno e mezzo dopo, il 28 maggio 1943, il prefetto di Cosenza scrisse al ministero dell’Interno segnalando che gli internati di Spezzano «mantengono una condotta che lascia molto a desiderare, in quanto stanno in continui contatti tra loro e spesso si associano con persone sospette del luogo. Pertanto, stimo opportuno vengano assegnati possibilmente in un campo di concentramento». Il 7 giugno 1943 il ministero rispose autorizzando il trasferimento a Ferramonti, sempre in provincia di Cosenza, degli «elementi ritenuti più pericolosi» e una nota della direzione del campo di Ferramonti, datata 28 luglio 1943, ci informa che «sono qui giunti n.12 internati ebrei». I coniugi Petzenbaum sono il sesto e settimo nome dell’elenco.

Quello di Ferramonti fu il più grande campo d’internamento per ebrei stranieri d’Italia. Nei cinque anni e mezzo di sua attività ne transitarono circa quattromila. Costruito in un’area malarica, recintato da una staccionata di legno sormontata da filo spinato e munito di otto garitte che ne sorvegliavano il perimetro, era composto da 92 capannoni bianchi, alcuni destinati ad attività amministrative e gli altri adibiti a dormitori per i prigionieri.

Per i Petzenbaum segnò comunque un peggioramento delle condizioni di vita. La disciplina del campo era scandita da una serie di obblighi. In primis l’appello di controllo. Tre volte al giorno - alle 9, a mezzogiorno e alle 19 – tutti gli internati dovevano aspettare sull’attenti e rispondere quando veniva chiamato il loro nome.

Ma non fu quello il destino di Goldi. Consapevoli delle intenzioni di Hitler, prima di trasferirsi a Ferramonti, Wrumek e Sally decisero infatti di far scappare la figlia in Svizzera. A spingerli erano state le comunicazioni ricevute nel corso del 1942 da familiari rimasti in Polonia, i quali nonostante la doppia censura – quella nazista e quella fascista – erano riusciti a informarli del fatto che gli ebrei, inclusi membri della loro famiglia, stavano scomparendo, portati in «luoghi sconosciuti». Wrumek ricevette cartoline dal padre, all’epoca chiuso con la madre nel ghetto di Cracovia, da sua sorella Gusta, prigioniera nel ghetto di Tarnow, e in ultimo anche da Sarah e Joshua, i figli di Gusta, rispettivamente di 10 e 16 anni. Particolarmente tragico il contenuto di quest’ultima cartolina. Sarah e Joshua avevano scritto allo zio che erano rimasti soli perché i tedeschi avevano portato via i genitori e, sapendolo in Italia, lo avevano supplicato di chiedere aiuto al Papa. Un tragico appello al quale, dall’esilio di Spezzano, Wrumek non ebbe ovviamente alcun modo di rispondere. E la famiglia fu decimata: Gusta e suo marito David furono probabilmente uccisi nel campo di sterminio di Belzec, Joshua morì ad Auschwitz assieme alle cugine Shoshana e Khana, figlie di un fratello di Wrumek, mentre di Sarah non si è mai più saputo nulla.

Per evitare gli stessi rischi, Wrumek organizzò per Goldi un pericoloso viaggio clandestino dalla Calabria alla Svizzera. A ricostruirlo è il verbale dell’interrogatorio della ragazza compilato dalla polizia elvetica che abbiamo ottenuto dal «Holocaust Survivors and Victims Resource Center» del the US Holocaust Memorial Museum di Washington.

Goldi aveva lasciato Spezzano con la figlia di un’amica dei suoi genitori, la quale tornava a Milano dopo aver visitato i nonni, anch’essi internati nel paese dei Petzenbaum. Era poi rimasta a Milano per qualche mese con l’amica dei genitori e sua figlia prima di scappare insieme. «Un giorno la signora che mi ospitava seppe che era ricercata da tedeschi e fascisti, perché anch’essa di nazionalità polacca e di razza ebraica», si legge nel verbale. «Per sfuggire alla cattura, unitamente a detta signora e sua figlia, abbiamo passato la frontiera clandestinamente il giorno 11.11.1943 da Bruzella».

Quarant’anni dopo Goldi ricostruirà quell’episodio per la sua amica e coautrice Elisabetta Mattioli. La germanista non lo ha mai dimenticato. «Goldi era una persona riservata. E non parlava del suo passato. Solo una volta lo ha fatto, e io capii subito che era un momento unico», ricorda Mattioli. «Mi raccontò di aver passato il confine con la Svizzera a piedi, di notte con altri rifugiati. Si ricordava che era buio, era freddo - c’era la neve - e le era stato detto di procedere in fila indiana senza mai parlare. A un certo punto, una di loro perse qualcosa, ma era troppo pericoloso tornare indietro a cercarla e non le fu concesso. Goldi mi disse di aver sentito il forte senso del pericolo e ancora oggi, ogni qualvolta mi trovo in montagna a camminare nei boschi, mi ricordo delle sue parole… di Goldi che attraversa il confine al buio e nella neve».

La tragica ironia è che quell’angoscia, e la successiva solitudine in Svizzera, le sarebbero state risparmiate se fosse rimasta con i genitori. Perché, poco più di un mese dopo l’arrivo di Wrumek e Sally, il campo di Ferramonti fu liberato dagli alleati che avevano cominciato a risalire la penisola.

Gli internati furono col tempo liberati e, sebbene la maggior parte degli ebrei decisero di trasferirsi in Palestina o negli Stati Uniti, la famiglia Petzenbaum fece una scelta insolita: andare a vivere a Napoli, dove si stabilirono prima in Corso Vittorio Emanuele, a sud di Castel Sant’Elmo, e poi in via Cimarosa, al Vomero. Goldi fu in grado di raggiungerli solo agli inizi di settembre del 1945.

A Napoli Goldi si iscrisse al liceo classico Jacopo Sannazaro dove, frequentando una classe per alunni di religione ebraica, divenne grande amica di una ebrea napoletana, Anita Gherscfeld, anche lei residente in via Cimarosa. Dopo aver conosciuto un giovane magistrato napoletano, Renato Raja, pur davanti a una leggera ritrosia dei genitori che vedevano con preoccupazione l’unione con un cattolico, lo sposò. Nel 1953 nacque la loro prima figlia, che Goldi volle chiamare Anita. Tre anni dopo arrivò anche un figlio, Mario, e la famiglia si trasferì da Napoli a Roma.

«Quando la conobbi, Goldi viveva già a Roma, nel quartiere di Montesacro, ma rimase sempre molto legata a Napoli. Non solo per via del marito napoletano, ma anche perché aveva vissuto lì con i genitori. Parlava volentieri di Napoli. E ogni tanto faceva una battuta in dialetto napoletano. Con il suo accento tedesco».

Descrivendo sua madre nell’epistolario La frantumaglia Elena Ferrante non ha inserito quel dettaglio, pensiamo noi per non farsi scoprire. Certo è che quell’accento teuto-napoletano doveva sicuramente essere molto speciale. Come Goldi.

© Riproduzione riservata