Cultura

La riforma sotto la lente

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La riforma sotto la lente

  • –Giulio Vigevani

Ora abbiamo una certezza: il 4 dicembre prossimo si voterà per confermare o respingere la legge costituzionale approvata definitivamente dal Parlamento lo scorso aprile.

La vittoria del “sì” porterebbe alla più estesa revisione del testo costituzionale della storia repubblicana. Circa trenta articoli della seconda parte della Carta - quella sulla architettura dei poteri - saranno modificati sostanzialmente, altri solo formalmente.

Certo, è necessario precisare – alla luce di alcune voci allarmate – che la riforma non conduce a una nuova Costituzione: i principi fondamentali e il catalogo dei diritti non sono toccati, l’indipendenza della magistratura non è messa in discussione e il sistema di governo resta ancorato alla tradizione parlamentare, con l’Esecutivo che deve ottenere la fiducia della camera eletta dai cittadini.

Non si tratta, d’altra parte, di una semplice opera di “manutenzione ordinaria” o di una mera riforma settoriale. Il testo in effetti disegna una profonda trasformazione dell’ordinamento della Repubblica.

Il “cuore della riforma” è noto: l’abbandono del bicameralismo paritario e la trasformazione del Senato in organo di rappresentanza delle istituzioni territoriali, con funzioni diverse (e minori) rispetto alla Camera e non più legato al governo da rapporto di fiducia. Ciò farebbe venir meno due “primati” italiani, invero molto discutibili: l’essere l’unico sistema parlamentare con due Camere con identica legittimazione e identici poteri e l’essere l’unico stato regionale senza un ramo del Parlamento che rappresenti i territori e quindi privo di una sede politica ove risolvere gli inevitabili conflitti tra centro e periferia.

Il secondo pilastro è lo spostamento verso il centro del pendolo delle competenze legislative, dopo che la riforma del 2001 era andata decisamente in direzione regionalista. In un contesto di complessiva diffidenza nei confronti delle istituzioni regionali e delle loro classi dirigenti, si ampliano da una trentina a circa cinquanta le materie attribuite esclusivamente allo Stato e si introduce la possibilità per esso di intervenire anche ove la competenza è regionale, quando lo richiede la tutela dell’interesse nazionale.

A ciò si aggiungono numerosi interventi meno conosciuti ma forse non meno rilevanti. Anzitutto l’innalzamento della maggioranza per l’elezione del Presidente della Repubblica, che potrà così avvenire solo con il concorso di almeno una parte delle opposizioni. Poi l’elezione dei cinque giudici della Corte costituzionale di nomina parlamentare, non più eletti in seduta ma separatamente, tre dalla Camera e due dal Senato. Vi è anche l’abbassamento del quorum per la validità dei referendum abrogativi, qualora si raccolgano almeno ottocentomila firme, che impedirà a chi si oppone di ricorrere al facile trucco dell’invito all’astensione. Nella stessa logica, si eleva a 150mila il numero di firme per presentare una proposta di legge di iniziativa popolare, ma se ne garantisce la discussione e la deliberazione. Non manca il rafforzamento dei poteri del governo nell’approvazione delle leggi, attraverso l’istituto del “voto a data certa”, che assicura una corsia preferenziale ai suoi disegni di legge, compensato però dall’introduzione di limiti più rigorosi ai decreti legge. E, per finire questo elenco di quelli che ci paiono gli esempi più importanti, citiamo anche il controllo preventivo della legge elettorale da parte della Corte costituzionale e, alla Camera, la disciplina dello statuto delle opposizioni.

Sono modifiche che incidono non poco sul funzionamento delle nostre istituzioni e che la Domenica esaminerà nel dettaglio nei prossimi numeri, cercando di illustrarne le radici storiche e culturali, nonché le ragioni di chi è favorevole e di chi è contrario. Il tutto senza nascondere le opinioni dei vari autori, ma anche senza fare propaganda per una o per l’altra opzione. Insomma, con spirito laico, lontano dalla retorica della “Costituzione più bella del mondo” e dalla altrettanto vacua esaltazione del cambiamento “buono in sé”.

In questo primo articolo “di presentazione” cominciamo a dare un’impressione generale. E, in quest’ottica, l’elettorato è chiamato a valutare le specifiche soluzioni adottate dal Parlamento sulle singole questioni, ma ancor più la direzione verso la quale si orienta il progetto di revisione costituzionale. La riforma nel suo insieme, specie se collegata alla legge elettorale approvata nel maggio 2015, si muove verso una democrazia “maggioritaria”, che sacrifica l’eguale rappresentanza in Parlamento di tutte le opinioni presenti nel Paese per favorire la formazione di governi tendenzialmente stabili e in grado di decidere in tempi brevi, politicamente responsabili davanti al corpo elettorale dell’attuazione del programma prima delle elezioni.

A tale visione della democrazia si contrappone l’idea che il Parlamento, in contesti multipartitici come l’attuale, debba essere prima di tutto una fotografia fedele del pluralismo presente nel Paese. In questo modello, definito consociativo, la formazione del governo avviene tendenzialmente attraverso la contrattazione tra le forze politiche rappresentate in Parlamento a seguito del voto e ad esse l’Esecutivo risponde.

Si tratta, dunque, di due concezioni - ognuna con pregi, difetti e rischi - che da tempo si confrontano nel dibattito pubblico italiano. Tale confronto si può riassumere nella tensione tra le spinte verso una democrazia stabile, nella quale il corpo elettorale sceglie insieme i rappresentanti e il governo e i timori di un eccesso di semplificazione, “dell’uomo solo al comando”. Questi due modelli sembrano ispirati da differenti percezioni della dialettica politica. La prima mostra una sostanziale fiducia nella maturità della democrazia, che consente, quindi, di concedere al governo una certa dose di capacità decisionale, sia pure controllata. La seconda, invece, tende come primo obiettivo a limitare al massimo il potere, nel timore che prevarichi.

La riforma del 2016 assume dunque importanza anche alla luce di questa ricostruzione: non è un fulmine a ciel sereno, ma solo l’ultimo atto di una lunga disputa, che inizia con la nascita della Costituzione e che impegna da almeno un trentennio le aule parlamentari e le pagine dei giornali.

Non resta dunque che sperare in un voto consapevole, che non sia, per dirla con Ambrose Bierce, solo «simbolo e strumento della facoltà che ha ogni libero cittadino di dimostrarsi uno sciocco e di rovinare il proprio Paese».

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