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Da Venezia senza amore

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ALL’ITALIANA

Da Venezia senza amore

Alla garrone  «Indivisibili» di Edoardo De Angelis
Alla garrone  «Indivisibili» di Edoardo De Angelis

A settembre e ottobre le sale “smaltiscono” i film italiani presentati a Venezia, in concorso e nelle sezioni collaterali. Di solito con magri incassi, si tratti di film con qualche appeal o con divi internazionali (Guadagnino l’anno scorso), o di documentari costati due lire; sia che la critica li abbia stroncati, sia ne abbia parlato bene. C’è, oggettivamente, un problema di pubblico per il cinema d’autore, e non solo in Italia (per la Francia lo notava l’ultimo numero dei «Cahiers du cinéma»). In giro, una nuova leva di autori sonda una propria strada: con esitazioni, in cerca di un qualche rapporto con un pubblico che non sembra esserci. Tra un po’ usciranno altri due esordi “veneziani”, La ragazza del mondo di Marco Danieli e Il più grande sogno di Michele Vannucci: film fragili ma generosi, non pigri, tutt’altro che privi di curiosità.

Anche se gli incassi non sembrano esorbitanti, alle “Giornate degli autori” veneziane era stato benissimo accolto Indivisibili di Edoardo De Angelis, che poi si è giocato il posto come candidato italiano agli Oscar, poi ottenuto da Fuocoammare di Rosi. Il film è dapprima una sorpresa, perché i lavori precedente di De Angelis puntavano in maniera eclettica sul genere, dalla commedia al noir. In realtà anche Indivisibili tratta, per così dire, il “film d’autore” come se fosse un genere, con le sue regole e i suoi stilemi all’interno dei quali variare. Il modello prossimo, evidentissimo, è il Garrone di Reality, ma senza il pathos promiscuo con cui Garrone si immergeva nel mondo raccontato (anzi, all’opposto, con un certo estetismo), ma con la stessa idea di unire fiaba e iper-realismo. La cifra stilistica del film è già contenuta nella prima scena, un lungo sinuoso piano-sequenza che ci porta, da una spiaggia all’alba, dentro la stanza in cui dormono le due protagoniste. Le protagoniste Daisy e Viola sono due gemelle siamesi che cantano in feste private o pubbliche e sono considerate un po’ sante. L’ambiente è quello del litorale domizio, con mare, casermoni, alberghi kitsch inquadrati in campo lungo o col grandangolo. Il soggetto è originale, cerca modelli nuovi e nuove strade, risalendo magari da Garrone a Marco Ferreri (citato esplicitamente nel nome di un personaggio). Almeno per la prima ora, prima che la storia si perda, guardando il film si oscilla tra l’irritazione e la sorpresa: da un lato figure spurie (il prete, lo zio omosessuale delle ragazzine con il compagno) e momenti di teatrino tra i genitori con battute troppo scritte (che solo il dialetto riscatta); dall’altro una eleganza di regia non comune, specie quando contempla quasi estaticamente scartando dal realismo; e soprattutto la presenza magica delle due protagoniste. Sono loro a salvare e “portare” il film, liberando le battute da ogni falsità appena le pronunciano, riempiendo le inquadrature con le loro espressioni e i loro movimenti.

Era stato ben accolto a Venezia anche l’esordio presentato alla “Settimana della critica”, Le ultime cose di Irene Dionisio, che parte da un luogo forte (il banco dei pegni) e vi costruisce intorno delle storie incrociate, a cominciare da quella del giovane impiegato timido che si ritrova a contatto con la durezza del mondo. L’impianto è dichiaratamente da teatro, il modello sembrano certi bozzetti del tardo neorealismo zavattiniano, magari a episodi. Alcuni personaggi hanno una loro forza, e si apprezza lo sforzo dell’autrice di lavorare a una costruzione drammaturgica e nello stesso tempo a una ricerca di stile. Il risultato è ancora un po’ esile, come se il film non partisse mai davvero, come se le storie fossero solo pudicamente accarezzate, seppure con sincerità e gradevolezza.

Verrebbe da dire che col documentario certe cose vengono meglio, che esso permette anche una tenuta estetica e una precisione di sguardo che la drammaturgia della fiction annacqua, steccando in dialoghi, personaggi, insomma su sceneggiature mai davvero credibili, o in regie talvolta troppo attente a far bene il compitino d’autore, in versione minimale o esibizionista. Certo, Liberami di Federica Di Giacomo, vincitore della sezione “Orizzonti” e anch’esso in sala, risulta molto più appassionante, e con personaggi più potenti, di molto cinema di finzione. E la sua “scrittura”, ottenuta attraverso l’incontro con i personaggi e il montaggio, è assai più sicura e cogente di un copione filmato. Eppure alla costruzione di storie, al dialogo tra la realtà e l’invenzione, alla visionarietà, alla metafora, all’apologo e al paradosso, non si può rinunciare. Una responsabilità dei critici e dei media sarebbe quella di ascoltare, coltivare, litigare anche, con una generazione di registi che appare sempre più senza referenti.

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