Cultura

Gravidanze collettive in chat

  • Abbonati
  • Accedi
TEATRO

Gravidanze collettive in chat

Nel 2008 a Gloucester, una cittadina del Massachusetts, si verificò un singolare caso: diciotto studentesse della scuola superiore rimasero simultaneamente incinte, come per una misteriosa scelta collettiva. La vicenda fece scalpore, attirando la stampa di tutto il mondo, e finendo al centro di due documentari. Solo più avanti si seppe che Gloucester, nei mesi precedenti, era stata teatro di un’incredibile quantità di violenze sulle donne, tanto da indurre cinquecento uomini a organizzare una marcia per dissociarsi dal fenomeno. E le ragazze si erano accordate per ribellarsi creando una specie di comune femminile dentro la quale allevare i propri figli. Una storia del genere non poteva non attirare Marta Cuscunà, la giovane attrice-autrice friulana che da anni sta lavorando a un articolato progetto sulle “resistenze femminili”. E così la spiazzante iniziativa delle ragazze americane è diventata l’ideale terza tappa di un percorso iniziato con È bello vivere liberi, sulle imprese della staffetta partigiana Ondina Peteani, e proseguito con La semplicità ingannata, un’acre requisitoria contro la monacazione forzata, che partiva dall’episodio di un gruppo di clarisse di Udine che, nel Cinquecento, si opposero alle gerarchie ecclesiastiche trasformando il proprio convento in un centro di cultura e di pensiero.

La Cuscunà, sola in scena come è sua abitudine, si è aiutata con un ingegnoso espediente tecnico che si trasforma istantaneamente anche in un’efficace sintesi metaforica: dodici teste di lattice fissate ad altrettanti “scudi” di legno e allineate su due strutture portanti come trofei di caccia appesi alla parete. Queste teste, che si muovono alla perfezione mimando un variare di espressioni facciali con impressionante adesione iper-realistica, evocano un eloquente campionario della popolazione locale suggerendo al tempo stesso l’idea di una società imbalsamata nelle proprie ipocrisie nei propri ottusi pregiudizi.

Le teste meccaniche, opera di Paola Villani, danno vita a due tipologie di personaggi: da un lato il mondo degli adulti, i genitori, il preside della scuola, preoccupati più di soffocare lo scandalo o di tutelare se stessi che di capire cosa accade. Dall’altro quello dei ragazzi, i giovanissimi padri, gli ignari prestatori di seme, immaturi, impreparati a tutto, il cui principale rapporto con l’altro sesso passa ancora attraverso la pornografia. Le ragazze sono presenti unicamente attraverso uno schermo posto fra questi due gruppi umani, su cui vengono visualizzati i messaggini della loro chat e le informazioni di una app che ne scandisce le gravidanze.

Minuta, apparentemente fragile, la Cuscunà affronta in realtà la ribalta con spirito guerriero. Si è scelta un ruolo nel teatro italiano di oggi, e lo incarna con lucidità ed estrema determinazione, tentando di volta in volta di ampliare e approfondire sempre più la materia trattata. L’argomento di Sorry, boys, pur provocatorio, suggestivo, è forse meno illuminante di quanto non fosse – anche nel rivelare un capitolo storico sconosciuto – quello de La semplicità ingannata: ma le consente di allargare l’orizzonte, di passare dalla mera rivendicazione femminile a uno sguardo pungente e disincantato sulle radici e le storture del maschilismo. In questo spettacolo, di cui avevo visto un breve assaggio lo scorso anno al festival B.Motion, e che poi è stato anche invitato a rappresentare il nostro teatro in una rassegna parigina, la Cuscunà conferma le straordinarie doti mimetiche già dimostrate nei lavori precedenti: nascosta nel buio, è bravissima a dar voci e personalità diverse a ognuno dei personaggi, animando contemporaneamente quelle loro fisionomie artificiali attraverso un complicato sistema di leve, pedali, freni di bicicletta. Il risultato è sorprendente, benché forse a lungo andare quell’unico panorama di teste mozze tenda un po’ ad appiattirsi e a diventare ripetitivo.

© Riproduzione riservata