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La cucina antirazzista di Carrie Mae

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La cucina antirazzista di Carrie Mae

Solitudine. Carrie Mae Weems, «Untitled (Man reading newspaper)», tratta da «Kitchen Table Series», del 1990
Solitudine. Carrie Mae Weems, «Untitled (Man reading newspaper)», tratta da «Kitchen Table Series», del 1990

Se c’è un tavolo, c’è una gerarchia. Chi siede alla destra di chi, chi versa l’acqua, chi è al centro e chi occupa il lato corto ed è il solo padrone. Esperienza di tutti i giorni, dall’ultima cena alla cena di ieri sera, e per questo Carrie Mae Weems, da trent’anni artista di riferimento della scena afroamericana, ha scelto la tavola più domestica di tutte, quella in cucina, meno elegante della sorella in sala da pranzo, per allestire il set di uno dei lavori più originali e attuali della fotografia contemporanea. Non esiste infatti periodo più giusto del nostro per dare veste editoriale completa alle Kitchen Table Series, venti immagini alternate a quattordici testi, concepite nel 1990 e tornate in vita oggi grazie alla lungimiranza di un editore italiano, Damiani (pag. 86, €45, edizione limitata a 25 copie con stampa autografa, €2.800). È forse una coincidenza se questo libro che parla della storia delle donne, dei diritti civili degli afroamericani, dell’emarginazione di entrambi, ma soprattutto del potere all’origine di ogni ingiustizia, esca in Italia quasi a ricordo dei sessanta casi di femminicidio dall’inizio dell’anno, e contemporaneamente esca negli Stati Uniti nei mesi della campagna elettorale quando un Paese, con ricaduta sul resto del mondo, è chiamato a scegliere tra una donna e un razzista?

Non possiamo certo trarre vaticini da queste mirabili fotografie nate all’epoca di George H. W. Bush e che nel corso del tempo hanno assistito alla presidenza di Bill Clinton, George W. Bush e Barack Obama. Ma vale la pena ricordare le parole che l’artista pronuncia nel suo studio di Syracuse, a poche ore di macchina da New York, dove la Weems abita dal 1996, anno della sua prima importante retrospettiva al MoMA. Dice Carrie Mae Weems: «Il potere dà potere solo agli uomini e solo agli uomini bianchi, perché se sei nero e sei donna il tuo essere nero e donna limita la portata della tua esperienza e del tuo messaggio, che non è mai universale perché è universale solo quella bianco e maschile». Per dare voce agli esclusi, Carrie ha usato l’arma più democratica, la più fragile e potente: se stessa, il suo corpo, il colore della sua pelle, il suo sesso. Si è messa in scena. Si è esposta. Una vita militante, fin da ragazza.

Carrie Mae Weems nasce nel 1953 a Portland, Oregon, città simbolo del razzismo americano, tristemente famosa per aver approvato nel 1857, unico caso in tutta l’Unione, una legge che proibiva ai neri di vivere, lavorare e avere proprietà tra quei confini, legge abolita solo nel 1926, e sarebbe un bell’anniversario da ricordare. In quello stesso periodo la famiglia di Carrie giunge a Portland, al seguito di una vasta immigrazione interna che dal sud degli Stati Uniti si sposta al nord. Carrie ha sei fratelli. A sedici anni tocca a lei diventare madre. La figlia ha un nome bellissimo, Faith, e la fede fuori dalla chiesa diventa il marxismo.

A vent’anni la Weems riceve in dono una macchina fotografica e la fotografia si rivela subito una presenza vitale. Di più, l’esempio di una postura sciolta e saldissima. Da un lato l’obiettivo documenta la lotta per i diritti civili, e sono manifestazioni, ritratti, e sono due anni di studio, fotografia e design al San Francisco City College. Dall’altro le inquadrature, e l’occhio che le compone, seguono la libertà interiore della danza di Anna Halprin, di cui la Weems segue i corsi a San Francisco insieme a John Cage e a Robert Morris, e basta ascoltarla, seguire i movimenti delle mani, delle spalle, quell’oscillare elegantissimo del busto per capire come Carrie in realtà non abbia mai smesso di ballare.

I mentori della giovane fotografa sono W.E.B Du Bois, storico curatore della mostra American Negro, presentata all’Expo di Parigi del 1900 (363 fotografie per dimostrare che la vita degli afroamericani era ben lontana dagli stereotipi razzisti di molti insigni scienziati), quindi, volgendo al presente, Dawoud Bay, suo un lavoro di cinque anni sulla vita quotidiana a Harlem, Anthony Barboza, di cui Carrie è l’assistente, e ancora Roy DeCavara, Robert Frank, Gary Winogrand. Gli idoli sono invece Malcom X, ucciso nel 1965, e Martin Luther King, ammazzato tre anni dopo. E le donne? «Le donne sono la musica della mia vita e parlo di Mahalia Jackson, che ha cantato ai funerali di Martin Luther King, parlo di Abbie Lincoln, Nina Simone, Koko Taylor», risponde la fotografa. E riascoltando I’m a woman, proprio di Koko Taylor, si ha l’impressione che sia stata composta in una cucina-teatro molto simile a quella che accoglie le rappresentazioni fotografiche di Kitchen Table Series. Chi avrebbe potuto visualizzare un testo come questo, I’m a woman, I am ball of fire, I can make love to a crocodile, I can change old to new, se non un’artista che mette in scena sotto una lampada da interrogatorio di polizia il destino delle donne e le dinamiche del potere familiare?

Il tema di Kitchen Table Seriessono dunque i rapporti a due, marito e moglie, moglie e amante, madre e figlia, e poi i rapporti di una donna con se stessa, sola nel darsi piacere come responsabilizzazione totale, sola in attesa che il telefoni suoni, e di nuovo tra le amiche piangendo e ridendo, e alla fine regina del suo futuro, una veste di velluto d’argento, la gabbia degli uccellini vuota, una scatola di cioccolatini, le carte da gioco, prima chiuse nel mazzo, ora tutte sul tavolo per un solitario dalle infinite combinazioni. Viene un dubbio, bellissimo. E se Carrie Mae Weems, ascoltando ancora la voce della Taylor, si fosse trasformata in a voodoo woman, capace di guardare attraverso l’acqua, la terra, e il tempo? Forse sì, visto che dalla cucina di Kitchen Table Series e dai suoi oggetti magici, un pettine, una spazzola, uno specchio, un pacchetto di sigarette, un rossetto, il ritratto di Malcom X, sono nati altri lavori epocali. Ed è come se le pareti di quel focolare americano si fossero aperte e avessero preso le forme maschili e femminili dell’architettura del Mali, dove Carrie viaggia e fotografa nel 1993; o ancora, dodici anni dopo, quelle della Roma imperiale, romana e fascista, «espressione di un ordine superiore che tutela, esalta, inquadra e schiavizza», precisa l’artista, mentre sfoglia le immagini che la ritraggono tra quelle rovine e quelle perfette geometrie di marmo bianco. Questa volta Mae, sacerdotessa in abito lungo, ci volta le spalle. Ma non importa, l’abbiamo guardata talmente negli occhi, seduta in cucina, l’abbiamo sentita talmente maestra e compagna che la seguiremmo ovunque.

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