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Balbuzienti con il Califfo

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PHILIPPE-JOSEPH SALAZAR

Balbuzienti con il Califfo

È un libro implacabile quello del filosofo francese Philippe-Jospeh Salazar, che ci inchioda alla sfida politica che il Califfato porta alla nostra concezione del vivere civile, una sfida che durerà ben oltre l’auspicabile fine del regno del terrore di al-Baghdadi. Se vogliamo provare per davvero a sconfiggerlo, quindi, dobbiamo innanzitutto capire la sua natura “plastica” e la sua essenza politica, anzi, iperpolitica, senza sottovalutarlo, irriderlo o pensare che si tratti di un fenomeno contenibile o destinato a uscire prima o poi di scena. «Il terrorismo islamico del Califfato è di un’ostilità generalizzata, polimorfa e illimitata. È senza termini di paragone. Questa è la sua forma. Con le sue arringhe, i suoi appelli, le sue agiografie, i suoi riti e i suoi racconti, il Califfato ha fatto risorgere l’essenza della politica, cioè la proclamazione fondatrice di un’eccezionalità senza termini di paragone».

Il libro di Salazar è innanzitutto un lavoro raffinato di analisi del linguaggio e del meta-linguaggio dell’Isis, svolto non dall’ennesimo “esperto di comunicazione” ma da un filosofo, professore emerito di retorica, capace di muoversi attraverso i diversi registri che occorre padroneggiare per comprendere a fondo il pensiero che si cela nelle parole dei proclami e delle arringhe e che svela la natura del nemico.

Per fare e nel fare questo Salazar ci conduce senza ipocrisie e perbenismi consolatori nella natura del discorso di al-Baghdadi, con il rispetto dovuto a qualunque oggetto (foss’anche il più ripugnante) che si vuole conoscere e spiegare. Così facendo ci illustra la logica parallela e la narrazione che consente una lettura dell’oratoria dell’Isis che normalmente fatichiamo a cogliere e che soprattutto sottovalutiamo, dimenticando che le «armi amano le parole. Trasformano le parole in armi nuove». Con pazienza e anche provocatoriamente, ma mai sbrigativamente, Salazar smonta le false e rassicuranti convinzioni che ispirano le reazioni dei politici e degli esperti, circa il terrorismo e la matrice islamista del caso di specie. Parola, territorio e terrore sono concetti messi da Salazar in una relazione in cui il loro nesso ci racconta lo sviluppo dalla forma embrionale e “debole” dell’azione di al Qaeda – il cui maggior successo fu nell’atto comunicativo (una sorta di speculare della parola performativa) degli attentati dell’11 settembre – a quella compiuta del Califfato.

Il Califfo è tale in quanto si proclama ed è riconosciuto; ma per ottenere il riconoscimento non esita ad esercitare il terrore all’interno e all’esterno: per mostrare la via, attraverso la purificazione, e per proteggere il territorio dai nemici. In questo senso, l’utilizzo del terrore acquista una natura politica e istituzionale, non diversamente da quanto accadeva nella Francia rivoluzionaria o nella Russia dei Soviet. Il territorio del Califfato non è però solo quello che i suoi fedeli compiutamente controllano; ma ogni regione nella quale chi lo riconosce come tale proclama la sua fede e la prossima sottomissione di quel territorio alla sua autorità, attraverso l’uccisione dei suoi nemici: miscredenti o apostati che siano. Di qui la pericolosità dell’illusione che sia possibile separare l’ambito della lotta contro al-Baghdadi in Siria e in Iraq da quella condotta a Parigi e Bruxelles.

Salazar vuole di-mostrarci – e ci riesce perfettamente – la natura squisitamente politica del Califfato che stride di fronte alla nostra balbuzie. Siamo ben più noi i barbari (i balbuzienti) direbbe un ateniese del tempo di Pericle rispetto a chi ci minaccia dall’Asia: siamo noi ad aver perso la capacità di “proclamazione”, di creazione della politica che pure è stata una lunga e degna tradizione occidentale: da Atene fino alla nascita delle due repubbliche archetipo della modernità politica, quella americana e quella francese. Salazar non si fa problemi a prendere le distanze dall’ossessione del politicamente corretto, a denunciare la “coranizzazione” del discorso pubblico francese, la «nostra passione sociale per il rispetto dell’altro senza prendere posizione e quindi senza assumere dei rischi (che) ci rende infantili nell’espressione del giudizio», quando si evita di riconoscere che chi è andato all’estero per combattere a fianco del nemico, chi si è reso complice di sgozzature o attentati in casa nostra è, semplicemente, «un traditore», che dovrebbe «ricevere il trattamento riservato ai traditori». Allo stesso tempo, però, scegliendo di applicare la categoria schmittiana del “partigiano” per analizzare l’azione politica e militare dell’Isis, ci fornisce la dimostrazione più evidente che non c’è nessuna traccia di pregiudizio culturalista nella sua analisi, spietata ancor più verso le nostre vigliaccherie che verso l’altrui crudeltà. Come il lettore avrà compreso, si tratta di gran lungo di uno dei migliori, più coraggiosi e più intelligenti libri scritti sul fenomeno del terrorismo islamista.

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