Cultura

L’arte al tempo della Riforma

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XVI SECOLO

L’arte al tempo della Riforma

Particolare del Cristo nel «Giudizio universale», l’affresco realizzato da Michelangelo  tra il 1536 e il 1541 nella Cappella Sistina, durante il pontificato di Paolo III
Particolare del Cristo nel «Giudizio universale», l’affresco realizzato da Michelangelo tra il 1536 e il 1541 nella Cappella Sistina, durante il pontificato di Paolo III

«Cagadure de mosche». Non altro che questo parevano le pitture sacre del duomo di Imola a Sebastiano Flaminio, umanista fra i più illustri della città romagnola, oltreché chiacchierato maestro dai gusti sodomiti. «Le ghiese vorebero essere schiette et bianche», proclamava Flaminio intorno all’anno di grazia 1550, meritandosi anche perciò la fama locale di essere «il più gran luterano del mondo». D’altronde – a sentir lui – neppure dentro gli interni domestici si sarebbe dovuto fare posto a immagini della Vergine, dei santi e dello stesso Gesù Cristo, sia che fossero statuette di legno o di gesso, sia che fossero stampe inchiodate al muro o sopra l’inginocchiatoio. «Io non tengo in casa di queste poltronarie», vantava il dotto gentiluomo che il tribunale dell’Inquisizione finirà per accusare di essersi scagliato contro «una Madonna depinta in una carta», distruggendola a pugnalate.

Gli storici della vita religiosa nell’Italia del Cinquecento sono venuti accumulando – a partire dagli archivi inquisitoriali – evidenze consimili. Hanno ampiamente documentato, con riferimento ai decenni centrali del XVI secolo, tutta una polemica di ispirazione eterodossa contro immagini o immaginette sacre, e contro le malintese devozioni che queste alimentavano presso la comunità dei credenti: polemica che non di rado sfociò, come nel caso di Sebastiano Flaminio, in episodi (veri o presunti) di iconoclastia. Crocifissi smembrati, Madonne fatte a pezzi e gettate nel fuoco, statue di santi sfregiate o impallinate... dal nord al sud della penisola, dalla Milano asburgica al regno di Napoli, gli inquisitori del Sant’Uffizio avrebbero registrato, denunciato, punito, numerose situazioni del genere.

La singolarità del contributo di Massimo Firpo e Fabrizio Biferali – che firmano ora a quattro mani un elegante libro laterziano, Immagini ed eresie nell’Italia del Cinquecento – consiste nel guardare, contestualmente, a una duplice dinamica storica. Da un lato, appunto, alla pars destruens: alla spinta polemica che condusse diversi estimatori italiani della Riforma protestante non solo a denunciare il carattere superstizioso di certe devozioni, ma anche a vituperare le immagini sacre, e perfino a distruggerle. Dall’altro lato, Firpo e Biferali uniscono le loro rispettive competenze di storico e di storico dell’arte per investigare la pars construens di tale processo: la produzione di opere variamente connotate in senso ereticale. Una produzione che ritengono cospicua, anche se il più delle volte dovette restare cauta o addirittura dissimulata, proprio perché gli artisti volevano sfuggire ai fulmini dell’Inquisizione.

Già in passato, Massimo Firpo aveva qualificato come «nicodemismo figurativo» la tendenza di numerosi pittori italiani del Cinquecento – compresi i maggiori, da Lorenzo Lotto a Iacopo Pontormo, e da Michelangelo a Tiziano – a dissimulare dietro forme iconologicamente elusive l’uno o l’altro messaggio eterodosso. Il più insistito fra questi messaggi riguardò qualcosa che di eterodosso aveva ben poco, ma che tale poteva apparire nell’Europa dell’ortodossia cattolica: la centralità del «beneficio di Cristo» nella storia della Salvezza. Cioè la centralità della Passione, delle umanissime sofferenze di Gesù e del suo sacrificio sulla Croce, prima e al di fuori di qualunque mediazione terrena o celeste. Prima e al di fuori della Chiesa istituzionale, del papa, dei vescovi, del clero. Prima e al di fuori di qualunque mediazione trascendente, degli angeli, dei santi, al limite dello Spirito Santo.

Una declinazione paradossale di questo messaggio cristocentrico è riconosciuta da Firpo e Biferali nell’opera d’arte per eccellenza del Cinquecento italiano, il michelangiolesco Giudizio universale della Cappella Sistina. Dove il paradosso sta in quel Cristo giudice imberbe ed atletico, tutt’altro che crocifisso; e sta nell’assenza stupefacente, in quel giorno del Giudizio, così di Dio padre come dello Spirito Santo. Un Giudizio universale senza Trinità, oltreché senza neppure l’ombra – fra i beati – di papi e cardinali, vescovi e fondatori di ordini religiosi, angeli alati e teste coronate. Quasi che il toscano Michelangelo avesse voluto corrispondere al ruolo che gli affibbiava allora uno scandalizzato diarista fiorentino, quello di «inventor delle porcherie»: il cattivo maestro che «tutti i moderni pittori et scultori» tenevano a imitare nei suoi «capricci luterani».

Proprio a Firenze, durante gli anni centrali del Cinquecento, la propaganda evangelica dei cosiddetti «spirituali» – i seguaci di Juan de Valdés e di Bernardino Ochino – trovò traduzione letterale in un ciclo di affreschi realizzato da Pontormo per il coro della basilica medicea di San Lorenzo. Ciclo oggi perduto (venne distrutto all’inizio del Settecento), ma di cui Massimo Firpo ha dimostrato da tempo come e quanto fosse iconologicamente dipendente da un catechismo di Valdés e dal bestseller della Riforma italiana, il trattatello sul Beneficio di Cristo. Il che risulta tanto più notevole in quanto gli affreschi laurenziani erano stati commissionati a Pontormo dal duca in persona, Cosimo de’ Medici.

La tormentata ricerca di un’arte religiosa che mantenesse al cuore del messaggio cristiano, con la nuda umanità di Cristo crocifisso, il potere salvifico della Grazia, a prescindere da ogni gerarchia dell’Aldilà o dell’Aldiquà, fu anche la ricerca del vecchio Michelangelo. Il pittore della Cappella Paolina, a Roma, e lo scultore della Pietà Bandini come della Pietà Rondanini. L’artista il quale – progettando la sua propria tomba – sceglieva di ritrarre se stesso nella figura di Nicodemo, il discepolo dissimulato di Gesù. E che rivolgendosi in rima, da morituro, direttamente al «Signor [suo] caro», riconosceva come «le spine, i chiodi, e l’una e l’altra palma / col tuo benigno umil pietoso volto / prometton grazia di pentirsi molto / e speme di salute a la trist’alma».

Nel 1564, la morte risparmierà a Michelangelo lo spettacolo del suo collega d’arte pittorica, Daniele da Volterra, impegnato a rivestire con «braghettoni» le figure più scandalosamente nude della Cappella Sistina: secondo un decreto del concilio di Trento fresco di stampa, che espressamente disciplinava l’uso delle immagini sacre. In generale, la chiusura del Concilio tridentino segnerà l’esaurirsi della lunga stagione spirituale che aveva animato gli artisti d’Italia con rapinose inquietudini eterodosse. Così, ai quattro angoli della penisola, le campane di mille chiese potranno battere indisturbate l’ora di un’arte della Controriforma.

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