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Non c’è politica senza morale

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FILOSOFI D’OGGI / A COLLOQUIO CON PHILIP PETTIT

Non c’è politica senza morale

Docente a princeton. Philip Pettit
Docente a princeton. Philip Pettit

È opinione diffusa che il politico di successo, quello che alle fine riesce ad affermare le politiche che gli premono, debba essere astuto e senza scrupoli. Forse altrettanto diffusa è l’opinione che i principi che regolano le scelte politiche siano e debbano essere ben diversi dai principi che stanno alla base dell’etica. Eppure c’è un disaccordo filosofico genuino a proposito della natura dei principi che determinano e giustificano l’agire politico. Certi filosofi confermano l’opinione comune che distingue i principi dalla scelta morale da quelli della scelta politica. Secondo altri, invece, ciò che è inammissibile dal punto di vista morale, lo è anche dal punto di vista politico. Certi principi morali sono fondamentali anche per l’agire politico e, senza questi principi, l’agire politico non ha davvero successo.

Questa posizione è sostenuta con grande vigore da Philip Pettit, L.S. Rockefeller Professor of Politics and Human Values a Princeton e Distinguished Professor della Australian National University. Pettit ritiene che una solida etica del rispetto debba regolare non solo le relazioni personali, ma anche quelle collettive e istituzionali. «Il rispetto è fondamentale alla politica così come all’etica. La comunità o lo stato esprimono rispetto per la persona quando identificano un certo ambito di libertà personali, proteggono la persona da interferenze con quelle libertà da parte degli altri e pongono restrizioni alla loro stessa azione. Questi vincoli possono essere di carattere costituzionale o democratico, ma in generale hanno la funzione di impedire allo stato di interferire con le libertà della persona».

A differenza di altri teorici contemporanei dell’etica del rispetto, Pettit sottolinea che questo principio vale «in modo “robusto”, cioè non dipendente da motivi particolari e nemmeno dall’impegno che ci si assume verso il valore etico del rispetto». Questa è una delle tesi centrali delle Tanner Lectures on Human Values che Pettit ha intitolato The Birth of Ethics (in via di pubblicazione). Partiamo da un fatto: i principi morali come il rispetto dell’altro sembrano basilari, eppure vengono sistematicamente violati. Da qui le domande: da dove vengono i principi morali? Perché seguirli? Le due domande sono collegate, secondo Pettit. Le risposte devono essere congruenti. Rispondendo alla prima domanda sull’origine dell’etica, si acquisiscono gli elementi fondamentali per rispondere alla seconda domanda sulla sua giustificazione razionale. I principi morali hanno una storia che è solo in parte dettata dalla nostra biologia.

Per spiegare questa storia c’è bisogno di fare un quadro del tipo di animali che siamo: «Siamo creature etiche solo perché, a differenza di altri animali, possiamo distinguere tra ciò che effettivamente desideriamo o troviamo attraente e ciò che consideriamo desiderabile o degno di essere desiderato. Ci sono due grandi rappresentazioni di come siamo arrivati a tracciare questa distinzione, nonostante il fatto che siamo il prodotto della evoluzione naturale. Una rappresentazione mette a fuoco ciò il livello individuale, l’altra il livello sociale. Nella rappresentazione individuale, l’etica si spiega a partire dalle sole capacità cognitive individuali, che ci consentono di distinguere tra desideri da cui effettivamente siamo motivati e desideri che ci motiverebbero nelle circostanze che stiamo affrontando se fossimo completamente razionali ed informati. Giudicare qualcosa come desiderabile, senza desiderarlo effettivamente, equivale a giudicare che lo desidereremmo se fossimo agenti ideali».

Nella rappresentazione sociale, invece, l’etica si spiega a partire dalle disposizioni naturali di agenti fondamentalmente sociali. La natura ci richiede di affidarci agli altri in molti sensi importanti e siamo ben disposti a dimostrare di essere noi stessi affidabili allo scopo di assicurarci che anche gli altri lo siano. «Grazie al linguaggio questa dipendenza reciproca dà luogo a pratiche nelle quali ci si impegna reciprocamente ad agire in un modo anziché in un altro. Mi impegno in un certo modo esponendomi ad una sanzione che si applica a chi non mantiene la parola data. La distinzione tra ciò che effettivamente desidero in una certa situazione e ciò che ritengo desiderabile si manifesta come la distinzione tra ciò che mi impegno a desiderare e ciò che mi capita di desiderare».

Nella rappresentazione sociale, dunque, c’è una relazione stretta tra impegno e responsabilità, che emerge e si stabilisce attraverso una storia naturale. «Per avere successo nelle pratiche fondate sull’impegno reciproco, deve essere manifesto a tutti che siamo capaci di parlare per noi stessi, capaci di rispondere alle aspettative che in tal modo generiamo negli altri e capaci di mantenere fede alla parola data. Ma ciò significa anche che dobbiamo credere che gli altri possano effettivamente essere motivati dall’aspettativa che si mantenga la parola data. Questo significa anche che dobbiamo credere di poter attribuire e assumere responsabilità. Devo credere che dicendovi che dovete fare qualcosa vi fornisco qualche ragione perché la possiate fare. Se sbagliate, devo poter pensare che avreste potuto fare altrimenti; deve essere possibile per me mantenere quell’atteggiamento che ho espresso prima nei vostri confronti. Questo è ciò che comporta essere responsabili di non aver fatto ciò che si doveva».

Il resoconto genealogico che Pettit ci offre non è volto a smascherare le illusioni della moralità svelando un inganno sociale, né spiegano l’autorità dell’obbligo morale con l’operare nascosto e opportunistico di certi processi naturali. Al contrario, l’indagine filosofica spiega e quindi conferma l’importanza dei principi morali fondamentali, rafforzandone l’impatto sociale.

A sua volta, la filosofia ha una funzione sociale duplice, critica e regolativa, che si esplica specialmente riguardo alle attività cooperative e alle loro espressioni istituzionali. «La filosofia è una disciplina diversa dalle altre perché cerca di elaborare teorie su questioni a proposito delle quali, in un modo o nell’altro, abbiamo già formato delle opinioni. Il ruolo della filosofia formale nella vita pubblica è di portare alla luce, criticamente, quelle assunzioni di psicologia del senso comune che informano in modo acritico le nostre istituzioni. Se viviamo in una società che non rispecchia i valori in cui crediamo, questa funzione della filosofia è indispensabile perché apre prospettive teoriche diverse da quelle attuali. Ma anche se siamo abbastanza fortunati da vivere in una società che rispecchia i nostri valori, la filosofia formale è socialmente utile. Prima di tutto, tiene in vita il senso del valore delle istituzioni benefiche esistenti. In secondo luogo, l’indagine filosofica ci dice dov’è che la società non fa abbastanza. Anche le migliori democrazie sono ben lontane da ciò che ritengo sia l’ideale. Il lavoro che rimane da fare da questo punto di vista non ha un limite».

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