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A Bob Dylan il premio Nobel per la letteratura

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IL RICONOSCIMENTO

A Bob Dylan il premio Nobel per la letteratura

Se ne discuteva da anni, sembrava impossibile che potesse accadere veramente. «È americano. Non lo danno a Philip Roth, figuriamoci a lui», si diceva. «È un cantante, ha scritto anche prosa, ma erano esercizi velleitari», si aggiungeva. «È troppo famoso e gli accademici sono terribilmente snob», si conveniva.
Alla fine è successo: il Premio Nobel per la Letteratura è andato a Mr. Robert Allen Zimmerman, meglio noto come Bob Dylan.

Dylan come Dylan Thomas, il poeta che avrebbe voluto essere se fosse nato in Galles una trentina di anni prima. Bob come lo chiamavano sin da ragazzino, in quel di Duluth Minnesota, un posto freddissimo, oggi noto soprattutto come set della serie tv di «Fargo».

Il riconoscimento va a lui, 75 anni compiuti lo scorso maggio, «per aver creato una nuova espressione poetica nell'ambito della grande tradizione della musica americana».

Qualcuno torcerà il naso, ovviamente. Accadde anche quando lo stesso premio andò al «teatrante» Dario Fo che, ironia della sorte, se ne va proprio oggi. Figuriamoci: dare il Nobel per la letteratura a uno che ha scritto un solo romanzo, l'esperimento «Tarantula» (1966) nel solco delle sperimentazioni Beat, e un solo saggio, «Chronicles» (2004), primo volume di una ipotetica trilogia autobiografica, dal quale tutti ci saremmo aspettati che raccontasse perché non accettò Woodstock ma ci siamo dovuti accontentare delle sue disquisizioni sul freddo che fa certe volte a Times Square e dei suoi giri in moto la domenica quando ha voglia. Figuriamoci: il suo immaginario poetico non è neanche originalissimo, obietteranno in molti, perché attinge a destra e sinistra, dalle Sacre Scritture e dagli spiritual, da Shakespeare e da William Burroughs. Come se non fosse vero che la letteratura, da quando è nata, prende in prestito. Ma in tutti i casi, ragazzi cari, siamo fuori tema. Il tema non è tanto la sua poetica, ma dove quest'ultima è riuscita ad arrivare.

Il Menestrello e la sua influenza
Il vero metro della grandezza del Menestrello di Duluth sta infatti nell'influenza esercitata sui suoi contemporanei perché, com'è noto, gli artisti comuni seguono le tendenze, quelli straordinari le determinano. Eccolo allora debuttare nel solco del folk più tradizionale e impegnato di Pete Seeger e Woody Guthrie, con lo sguardo timido, i capelli crespi, gli standard reinterpretati nell'album d'esordio e quelli «imposti» dai successivi «The Freewillin' Bob Dylan» e «The times they are a-changin'», la partecipazione alla marcia per i diritti civili del '63, la liaison con la già famosa collega Joan Baez e il suo ruolo d'icona beatnik che improvvisamente cresce, fino a oscurare gli amici Allen Ginsberg e Gregory Corso.

Le innumerevoli svolte di una carriera senza fine
Poi la svolta rock del '65, la folta criniera riccia, la magrezza monacale e i Wayfarer che ne coprono gli occhi spiritati, l'incontro coi Beatles, la scelta di appoggiarsi a una backing band che suona «elettrico», altre pietre miliari come «Highway 61 revisited» e «Blonde on blonde», le accuse di tradimento da parte dei seguaci che non si riconoscono in tutte queste novità giudicate «di orientamento commerciale». Poi ancora il ritiro dalle scene e la svolta country («Nashville Skyline» e il duetto con Johnny Cash) proprio mentre nel mondo impazza la contestazione, le autocelebrazioni e le apparizioni cinematografiche di inizio anni Settanta, l'episodica conversione al cristianesimo (memorabile in questo senso il disco «Saved»), le atmosfere black che qua e là affiorano, fino all'ultima veste di improponibile crooner che reinterpreta il Great American Songbook. Il nostro ne ha cambiato di volte pelle, in questi cinquant'anni. E il mondo a ruota dietro di lui. Non è forse poesia la sua esistenza stessa? Per dirla con l'ironia dei suoi 23 anni, «I'm a poet/ and I know it/ Hope I don't blow it». Tranquillo, Zimmy, non hai affatto toppato.

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