Sono autore dell’articolo che ha rivelato l’identità di Elena Ferrante, la scrittrice della tetralogia de L’Amica geniale. E con la mia inchiesta ho scatenato un putiferio etico, giornalistico e letterario.
Mi trovo per la prima volta a scrivere un articolo in prima persona. Per via del tipo di giornalismo che faccio normalmente scrivo in tutt’altro modo. Cercando di mantenere il massimo dell’oggettività e del distacco, sia critico sia emotivo. Ma in questa vicenda non c’è niente di normale. Dal comportamento dei soggetti che ne sono stati protagonisti alle reazioni di numerosi lettori sui social media.
Per me non è una novità essere bersaglio di accuse da parte delle persone di cui scrivo, e ancor più dai loro fan. Quindi non posso dire di esser stato colto impreparato. Quello a cui non ero preparato è il grado d’ironia, ipocrisia e manipolazione dei fatti che ha contraddistinto la vicenda.
L’ironia è data innanzitutto dall’evoluzione del mio rapporto con Elena Ferrante: è nato in quanto lettore della tetralogia ed è continuato quando mi sono trovato strenuo difensore della qualità letteraria dei suoi libri in discussioni con chi li sminuiva come “romanzi per americani” rappresentativi di una visione neo-romantica, quando non addirittura post-melodica, di una Napoli da cartolina.
In quanto giornalista d’inchiesta italiano di base a New York mi sono poi trovato subissato dalla stessa domanda: ma tu sai chi è Elena Ferrante? Ho cominciato così a pormela anch’io, leggendo la miriade di interviste che la scrittrice aveva concesso alla stampa di tutto il mondo alla ricerca d’indizi.
Col tempo mi sono convinto che potevano essere solo due persone: Anita Raja, la traduttrice dal tedesco di Edizioni e/o, la casa editrice de L’Amica geniale, che ritenevo la candidata più probabile perché nella scrittura vedevo una sensibilità letteraria femminile, oppure suo marito Domenico Starnone, lo scrittore napoletano che con il suo romanzo Lacci aveva mostrato segni di una simile sensibilità. Dopo aver saputo che Ferrante aveva pubblicato un saggio autobiografico, La Frantumaglia, l’ho comprato e letto come si legge la cartina di una caccia al tesoro. Sottolineando e annotando ognuno dei pochi dettagli che l’autrice dava su di sé e sulla propria famiglia.
Quel libro era nato in seguito a una “lettera aperta a Elena Ferrante” in cui Sandra Ozzola, la comproprietaria di Edizioni e/o, parlava del «sano desiderio dei tuoi lettori di conoscerti meglio». Insomma voleva fornire alcune, seppur scarne, risposte a quella che veniva riconosciuta come una legittima curiosità degli ammiratori che chiedevano di sapere di più sull’autrice.
Ho però immediatamente notato che i pochi dettagli personali concessi ai lettori non corrispondevano pienamente né a Raja né a Starnone. Solo allora mi sono imbattuto in un pezzo su Dagospia. «A Roma lo sanno anche i sassi che la scrittrice che fa impazzire i letterati di New York è la 62enne traduttrice napoletana Anita Raja», scriveva Roberto D’Agostino. A quel punto ho pensato che non ci fosse motivo di occuparmi professionalmente dell’identità di Ferrante. Perché era già nota. Persino ai sassi di Roma!
Ma nell’ultimo anno la grancassa mediatica alimentata da Edizioni e/o a suon di interviste dell’ “autrice misteriosa” ha cominciato a rimbombare sempre più nelle mie orecchie. E quando ho scoperto che e/o si apprestava a cavalcare l’ondata d’interesse per la scrittrice napoletana lanciando sia in Italia sia negli Usa una nuova edizione de La Frantumaglia, è scattata la molla giornalistica.
A quel punto non si trattava tanto di svelare un mistero, bensì una bugia. E c’era un solo modo per riuscirci senza timore di essere smentiti: appurare chi aveva beneficiato del successo commerciale dei libri. Da questo punto di vista sapevo che il mio compito sarebbe stato più facile del solito. Scoprire come Roberto Formigoni avrebbe potuto, direttamente o indirettamente, beneficiare dei “buoni sconto” datigli da Saddam Hussein per sostenere la campagna contro l’embargo dell’Onu era stato ben più difficile: avevo dovuto trovare il nome della società svizzera controllata dal suo portaborse dove erano arrivati i soldi. Nel caso di Ferrante sapevo invece che il passaggio sarebbe stato diretto e ufficiale.
E qui viene il secondo elemento d’ironia: una delle critiche rivoltemi da alcuni lettori con grande indignazione è stata quella di essermi occupato di un soggetto “soft”, quale una scrittrice con pseudonimo, con metodi di giornalismo investigativo che avrei dovuto riservare a soggetti ben più “hard” – dagli amministratori pubblici ai banchieri che spolpano contribuenti e risparmiatori. Ma dove era la loro indignazione quando spiegavo come il tesoriere dell’allora Governatore della Sicilia Totò Cuffaro ha incassato milioni all’estero vendendo derivati a orologeria alla sua stessa Regione? O scrivevo di Gianni Zonin che scarnificava la Popolare di Vicenza?
Veniamo all’ipocrisia. A partire da quella della casa editrice che per quasi un quarto di secolo ha alimentato il circo mediatico intermediando interviste e pubblicando un falso “autoritratto” mentre contemporaneamente chiedeva il rispetto della privacy.
Alessandro Ferri, comproprietario di Edizioni e/o, ha definito «disgustosa» la mia inchiesta, cercando di focalizzare l’attenzione sul fatto che, per svelare il mistero/menzogna - e cioè provare una volta per tutte che Anita Raja è Elena Ferrante - ho dimostrato che la traduttrice è stata la principale beneficiaria economica del successo commerciale dei libri di Ferrante. Prima della pubblicazione, io ho condiviso quei dati con gli editori chiedendo loro di confermare ciò che D’Agostino dava per scontato ma loro continuavano a negare. Gli editori hanno rifiutato, non dandomi altra scelta se non quella di mandare in stampa ciò che avevo appurato. Con il massimo del rispetto possibile (non ho menzionato né cifre di compensi né indirizzi di case né il nome del paese toscano in cui Raja ha comprato casa).
Ma a me interessava chiudere una volta per tutto il dibattito sull’identità di Elena Ferrante per cercare di capire come il suo background familiare e culturale potesse aver influenzato i suoi romanzi. I due articoli che compongono la mia inchiesta intendevano «situare» i romanzi di Ferrante, dare cioè ai testi il contesto di esperienze dell’autrice a essi correlato.
Per questo mi sono documentato sull’influenza avuta dalla scrittrice tedesca Christa Wolf, e soprattutto ho passato mesi nel ricostruire come la madre di Raja, Goldi Petzenbaum, fosse sopravvissuta a tre delle grandi tragedie del ventesimo secolo – nazismo, fascismo e Olocausto – emergendo come donna forte e indipendente. E che cosa è la tetralogia napoletana se non una grande storia di sopravvivenza femminile, con Lenù e Lina che riescono a far fronte alle grandi sfide economiche, sociali e culturali di un mondo a loro avverso?
Infine, vorrei soffermarsi sull’ipocrisia che meno mi sarei aspettato: quella del giornale più famoso del mondo, il New York Times, al quale avevo proposto di pubblicare (gratuitamente) la mia inchiesta. In un articolo datato 9 ottobre la giornalista del giornale newyorkese Rachel Donadio ha scritto che ho offerto loro il mio lavoro ma che il «Times ne ha rifiutato la pubblicazione, che avrebbe comportato il coordinamento con altre testate giornalistiche».
Ma questa frase è una manipolazione dei fatti, sorprendente per un quotidiano che si erge ad alfiere della correttezza giornalistica. Perché lascia intendere che il Times non aveva condiviso metodi o contenuti della mia inchiesta. Cosa non vera. L’accordo è infatti naufragato esclusivamente perché il quotidiano non aveva voluto sottostare alla costrizione di pubblicare in una data prestabilita con gli altri partner internazionali. Sul merito dell’inchiesta invece, il Times non ha mai sollevato alcun problema. Anzi, era arrivato a chiederne i diritti per il resto del mondo, spiegando che intendeva «pubblicare e promuovere la storia per massimizzare la sua portata e il suo impatto».
Questo ai suoi lettori Donadio ha scelto di non dirlo.
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