Cultura

Se l’attore non ricorda la battuta

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nuovo manuale minimo

Se l’attore non ricorda la battuta

Riportiamo un articolo pubblicato sulla Domenica il 23 agosto 2015 dal titolo “Se l’attore non ricorda la battuta”.

Si intitola “Nuovo manuale minimo dell'attore” – il primo Manuale minimo era uscito nell'86 – ma questo volumetto di Dario Fo con ampie citazioni di Franca Rame è molte cose insieme: un trattatello a uso di chi aspira a calcare le scene, un vivido ritratto dei vecchi guitti di paese, un piccolo memoriale degli anni degli esordi, un resoconto di alcune esperienze di importanza storica, la fondazione del collettivo Nuova Scena, il circolo La Comune, la Palazzina Liberty.

In queste pagine c'è un po' di tutto, le spigliate rievocazioni dei suoi anni di studente a Brera, i primi passi in uno studio di architettura dove vigevano regole piuttosto disinvolte, gli esordi teatrali col Poer nano, sotto l'ala di Franco Parenti. Ci sono, di sfuggita, Totò e Petrolini, la tragedia greca e i vangeli apocrifi, la Canzonissima del '62 – con relativa coda di polemiche e censure, e il conseguente “esilio” dalla Rai – e gli anni cupi della strategia della tensione.
È evidente che Fo non ha la forma mentis del teorico e del saggista. La sua inclinazione naturale è aneddotica e affabulatoria. Come tutti gli attori, ama evocare casi teatrali più o meno esemplari, più o meno autentici, lo spettatore realmente morto dal ridere al Ponchielli di Cremona, Strehler che si offre come artefice delle luci alle prove del Dito nell'occhio. In questi episodi c'è il suo tipico gusto per la sparata improbabile, per il falso storico tanto falso da poter persino essere vero. Nel suo orizzonte appare anche Samuel Beckett, colto in un unico gesto occasionale, mentre sta puntando i riflettori per una messinscena di Finale di partita a Berlino.

Certo, c'è anche la parte manualistica, che consiste in un florilegio di consigli, in verità piuttosto elementari, rivolti a ipotetici giovani attori. Più che dettami artistici, sono trucchi del mestiere, indicazioni su come trarsi d'impaccio di fronte a un vuoto di memoria o come comportarsi con un pubblico che stenta a reagire. A questo fine attinge soprattutto al sapere artigianale dei comici di una volta, degli scavalcamontagne da cui Franca discendeva, e di cui aveva ereditato la capacità di improvvisare e il bagaglio di astuzie e di espedienti.

Questi capitoli, che delineano un teatro pre-moderno, pre-Stanislavskiano, pre-registico sono a mio avviso i più interessanti. Poi, però, come attratto da una forza irresistibile, Fo non può fare a meno di tornare al nucleo centrale di un percorso teatrale che l'ha condotto alla conquista del Nobel: la scelta di uscire dai circuiti “ufficiali” per puntare a nuove forme di teatro politico nelle Case del Popolo, un teatro di satira e di contro-informazione, nato a tambur battente dall'urgenza della cronaca quotidiana.

Di quegli anni si sa già tutto, è già stato detto tutto, e non credo che il modo in cui Fo li ha vissuti alla ribalta possa fornire concrete indicazioni a dei ragazzi di oggi, alle prese con un teatro che va da tutt'altra parte: leggere i resoconti di certe assemblee, di certe discussioni interne alla compagnia può tuttavia fornire a chi non era ancora nato dei preziosi materiali di documentazione, degli utili strumenti per capire meglio il clima di un'epoca e le idee che vi circolavano.
E se a tratti non manca qualche eccesso di verbosità (sulle indagini per la strage di piazza Fontana, su un viaggio in Cina), basta leggersi le tre o quattro folgoranti paginette del Mistero buffo sul matto ai piedi della croce, che tenta di salvare un Cristo che non vuole essere salvato: nella loro leggerezza, nella loro felicità inventiva già si coglie tutto l'estro mimico e istrionico con cui lui le faceva rivivere sulla scena.

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