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Fatevi notare, non sparare

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il personaggio

Fatevi notare, non sparare

Celebrità  di Warho.  «Marilyn» (1967), Collezione Eugenio Falcioni
Celebrità di Warho. «Marilyn» (1967), Collezione Eugenio Falcioni

Ancora una mostra di Andy Warhol? Giusta obiezione perché non passa stagione in cui storici e critici non tentino una loro lettura di questo straordinario fenomeno. Già, ma che cosa può rendere diversa, o quanto meno intrigante, una nuova rassegna dedicata al più importante artista del secondo Novecento, di cui probabilmente già si sa tutto? Non bastano forse le decine di migliaia di opere, le migliaia di mostre e altrettanti cataloghi tradotti in tutte le lingue del mondo? Senza contare i film, i dischi, le riviste, le biografie, gli abiti, i memorabilia, persino semplici cartoncini firmati che per gli appassionati e i fan rappresentano un irrinunciabile feticcio.

Forse la ragione del persistere dell’interesse sta semplicemente nel fatto che con Andy Warhol comincia l’arte contemporanea così come noi la intendiamo. Certo, molto si deve al fatto che la sua esplosione coincide con gli anni Sessanta, decennio d’oro per l’Occidente postbellico in cui l’asticella creativa era posizionata davvero in alto. Non a caso i più forti incroci tra cultura alta e popolare hanno un’assoluta coincidenza temporale. Se nel calendario della musica pop c’è un ante e un post Beatles, allo stesso modo in quello dell’arte dobbiamo parlare di un «Before Andy» e di un «After Andy». Prima non era la stessa cosa, dopo non arà più la stessa cosa.

Warhol è l’artista della Pop Society per antonomasia, esattamente come i quattro futuri baronetti di Liverpool. Da principio ha la folgorante intuizione di voler riscrivere completamente ruolo, figura, abitudini e mestiere. Jackson Pollock, primo pittore americano che si possa definire tale, invecchia di colpo ben prima del 1956, quando la sua breve vita si interrompe dopo una notte alcolica, quando già un brufoloso giovane di provincia girava per Manhattan alla ricerca di un lavoro da vetrinista o disegnatore. A Pollock interessava solo dipingere, segregato nel suo studio di Spring, isolato e incazzato col mondo. Il ragazzo capisce innanzi tutto che bisogna lavorare su se stessi affinché la gente si accorga di te, a cominciare dai propri limiti e difetti, avvalendosi dei preziosi consigli e dell’assistenza della mamma Julia che decide di seguirlo a New York per stargli vicino. Della pelle devastata dall’acne si è detto; inoltre è pallido, gracile, presto perde i capelli ma trova il modo di indossare una parrucca biondo platino, poi argento (il suo colore preferito), collezionandone diversi modelli.

Apparire significa sintetizzare in pieno la «filosofia di Andy Warhol», che nella sua stranezza si sforza di apparire normale. Lievemente eccentrico come lo può essere un «metrosexual» a New York nei primi anni Sessanta, pensa che il suo modo possa essere tranquillamente replicabile proprio come la sua arte, e tutti quelli che gli girano attorno tendono a imitarlo e a mostrarsi all’incirca come lui.

Lo stile e l’arte di Warhol confermano la sua assoluta flessibilità e il desiderio di sperimentazione senza alcun preconcetto, vivacemente contraddittorio. Non ostenta in alcun modo il fatto di essere un personaggio, anzi uno dei cardini del suo pensiero è «pensare da ricco, sembrare povero», validissimo slogan per la moda di oggi, in tempi di vacche magre.

Warhol, che ha brevettato la Pop Society trasformando lo studio dell’artista in uno spazio aperto, alla moda, frequentato da persone di ogni tipo, non tutti raccomandabili, insegue la celebrità a ogni costo. Ma la celebrità è un’arma a doppio taglio. Scatena entusiasmi e fanatismi, anche invidie e odi fino a far scattare la follia omicida, come nella mente malata di Mark Chapman, che la sera dell’8 dicembre 1980 aspetta John Lennon sotto il Dakota Building e gli esplode contro cinque colpi di pistola, uccidendolo. Ma chi potrebbe volere la morte di un pittore? Eppure a Warhol è capitato anche questo.

La storia tramanda che il 3 giugno 1968 Andy Warhol sia stato vittima di un attentato che per poco non gli costa la vita. Dopo aver lottato per giorni tra la vita e la morte, Warhol si riprende piuttosto rapidamente e nel letto d’ospedale, dove riceve le visite di tutta la sua corte, ha modo finalmente di leggere di sé sui giornali, anche se questa volta non si tratta di cronaca mondana né di una nuova mostra. L’attentato che ha subito è una notizia sconvolgente, da prima pagina, ma l’attenzione mediatica concentrata su di lui dura pochi giorni. Il 6 giugno a Los Angeles cade in una sparatoria Robert Kennedy, candidato democratico alla presidenza degli Stati Uniti, designato successore del fratello John ucciso a Dallas nel 1963. L’America è sconvolta come cinque anni prima e il ferimento di Warhol viene messo in ombra, del tutto incidentalmente, da un analogo ma più grave fatto di sangue. Anche la celebrità ha infatti una sua classifica.

Quando torna al lavoro, Warhol riduce drasticamente le apparizioni pubbliche, terrorizzato dal possibile ripetersi di simili episodi. E scherza con la morte, certamente per esorcizzarla, anche se sono in molti a sostenere che quell’episodio lo segnò davvero per sempre. Accetta di posare per Richard Avedon, mostrando all’obiettivo il torace pieno di cicatrici. E poiché deve trascorrere un periodo di convalescenza, si ritrova a passare molte ore del giorno e della notte davanti alla televisione: «Prima che mi sparassero» dice «ho sempre avuto il sospetto che, invece di vivere un’esistenza reale, stessi guardando la televisione. Quando ti capita qualcosa davvero, è come guardare la tv: non senti niente. Nel preciso istante in cui mi sparavano seppi che stavo guardando la televisione». Oppure: «Se ci tieni alla tua privacy non farti mai sparare, perché in men che non si dica la tua vita privata diventa una faccenda di dominio pubblico».

Ma che cosa pensa davvero Warhol della televisione, lo strumento per eccellenza della nuova Pop Society che ormai ogni famiglia ha in casa? «Una scatola meravigliosa che, per quanto piccola sia, fornisce tutto lo spazio che si può desiderare». «Ho sempre pensato di non essere del tutto presente. Ho sempre avuto l’impressione non di vivere, ma di guardare la tv». «Un’intera giornata di vita è come un'intera giornata di televisione. Una volta cominciati i programmi, la tv non stacca e io neanche. Alla fine, l’intera giornata sarà un film».

Warhol accetta di andare in tv solo se può esercitare il totale controllo su ciò che accade. Senza saperlo, è davvero un precursore dei talkshow contemporanei e dei reality alla Grande Fratello: «La gente la prende sempre come un’invasione nel privato, ma io penso che tutti dovrebbero essere spiati in continuazione... spiati e fotografati».

Non esiste al mondo artista che sia stato più intervistato di lui, sebbene nel gioco di domanda e risposta lui metta in luce soprattutto la superficialità e la banalità dei propri concetti, con i quali si divertiva molto mentre gli interlocutori non capivano se sentirsi lusingati della sua disponibilità o irritati dalla probabile presa in giro. La stampa lo insegue e Warhol si diverte a replicare con monosillabi: «Sì, no, non so» sono le sue risposte preferite. Si preoccupa ossessivamente di smentire l’eccezionalità, l’importanza del suo lavoro e del suo ruolo pubblico, rivendicando il diritto di non essere originale e di non avere niente di speciale da dire.

Una delle sue frasi più citate, che ovviamente nasconde la più grossa bugia, può essere presa a massima dell'intera filosofia di Andy Warhol: «Se volete sapere tutto di Andy Warhol vi basta guardare la superficie dei miei quadri, dei miei film, della mia persona. Ed è lì che sono io. Dietro non c'è niente».

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