
Zizerbedo, gresporei, pelon,
erbograsso, pissaletto, radicion, boragine, campanello, rapunzelin, coadaso, tirafilo, grassaporchin.
È una canzone, una romanza, la prima quartina di un poema d’amore, è la dozzina, il mazzo dei dodici erbi. Mia madre è stata l’ultima che li conosceva tutti e sapeva cantarli e sapeva trovarli anche quando se n’è venuta in città; faceva il suo mazzo nello sfacelo dei lotti incolti, nelle faglie degli asfalti corrotti, negli interstizi dei marciapiedi di periferia.
Sconosciuti alla lingua italiana e forse persino al Limneo, ignoti alle mense civili, i dodici erbi che nessuno vuole e a volte neanche i conigli, che uno per uno sono solo che erba e due o tre anche veleno, ma messi insieme nel recondito ordine aureo, nella misura millesimale centellinata foglia a foglia, stelo a stelo, sono la pietanza del conforto e della dovizia. Il piatto di erbi lessati è il turibolo degli incensi del vespro, dispensatore di essenze dell’estasi. Non ricordavo più la canzone dei dodici erbi, a mala pena m’era rimasta l’orma ormai fossile di un profumo, sono orfano da un bel pezzo e questa ne è inoppugnabile prova, ma tornando alla mia patria vallata nell’ascosa costa detta Paghezzana, ho incontrato per le sue deserte piane una contadina, faccia, scarpe e verbo da contadina, una giovanotta Lucia, che conosce i dodici nomi, sa trovarli e li cucina. Li serve come il prete la messa, chiede anche perdono se il piatto è sbrecciato. Sì madre mia, sono quelli.
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