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La letteratura che diventò storia

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Chinua Achebe

La letteratura che diventò storia

Nigeriani.  Chinua Achebe (1930 - 2013), considerato il padre della letteratura africana di lingua inglese
Nigeriani. Chinua Achebe (1930 - 2013), considerato il padre della letteratura africana di lingua inglese

Quando la casa editrice londinese William Heinemann. nel 1958, ricevette il manoscritto di Le cose crollano di Chinua Achebe, era in dubbio se pubblicarlo. La domanda fondamentale era questa: «C’è qualcuno che comprerebbe un romanzo scritto da un africano?». All’epoca gli esempi di africani che scrivevano in inglese (per esempio il surreale Il bevitore di vino di palma di Amos Tutuola e il romanzo di Cyprian Ekwensi sulla Lagos contemporanea, People of the City) non erano più di una manciata, e nessuno di essi aveva l’ambizione, la raffinatezza o la sicurezza di Le cose crollano.

Chinua Achebe inizialmente aveva concepito il romanzo come la storia di tre generazioni: un uomo nell’Igboland precoloniale che lotta contro i cambiamenti apportati dai primi missionari e amministratori europei; il figlio, che si converte al cristianesimo e riceve un’educazione occidentale; e il nipote, che studia in Inghilterra e vive la vita della nuova classe dirigente nei primi anni dell’indipendenza. Successivamente ridimensionò l’opera, concentrandosi solo sulla prima generazione per realizzare un’accurata osservazione dell’incontro coloniale tra africani ed europei ambientato tra le popolazioni Igbo della Nigeria sudorientale negli anni 90 dell’Ottocento, con al centro l’eroe tragico Okonkwo. Il suo secondo romanzo, Ormai a disagio, saltò una generazione raccontando la storia del nipote di Okonkwo, Obi, funzionario pubblico nella Lagos degli anni 50. La terza opera, La freccia di Dio, che parlava di un prete Igbo e di un ufficiale distrettuale inglese nell’Igboland degli anni 20, può essere considerata rappresentativa dell’epoca del figlio di Okonkwo. Insieme, la «trilogia africana» di Achebe disegna un arco solido e ricco di sfumature, una cronaca umana dei cambiamenti culturali e politici che hanno definito lo Stato africano moderno.

Quando la William Heinemann superò le sue reticenze e pubblicò Le cose crollano, nel giugno del 1958, i critici furono prodighi di elogi. Achebe, scrisse il «Times Literary Supplement», era «riuscito a presentare la vita tribale dal di dentro». Si trattava effettivamente di una novità. Le cose crollano era innovativo non solo per l’argomento trattato, ma anche perché adottava un punto di vista africano: la vita tribale era stata raffigurata innumerevoli volte, ma sempre dall’esterno, da scrittori non africani. Achebe aveva letto alcuni degli esempi più famosi di questi «classici del colonialismo» negli anni 40, quando frequentava le superiori. «Non riuscivo a vedermi come un africano», ha scritto parlando della sua reazione ai personaggi africani di quei libri. «Mi veniva da schierarmi con i bianchi contro i selvaggi. L’uomo bianco era buono, ragionevole, intelligente e coraggioso. I selvaggi schierati contro di lui erano malvagi, stupidi o tutt’al più scaltri. Li odiavo». Quando maturò, cominciò a capire l’enorme potere che avevano le storie, e che questo potere era plasmato da chi le storie le raccontava e da come le raccontava. Quando frequentava l’università, negli anni 50, oltre a leggere Wordsworth, Shakespeare e Coleridge, lesse anche Mister Johnson di Joyce Cary, un romanzo ambientato in Nigeria che la rivista «Time» aveva definito «il libro più bello mai scritto sull’Africa». Achebe non era d’accordo: non solo il personaggio nigeriano del romanzo non diceva nulla a lui e a suoi compagni di classe, ma notò anche, nella descrizione dei nigeriani, «un sostrato di severità […] un contagio di disprezzo, odio e derisione».

Si è scritto molto sul romanzo d’esordio di Achebe come risposta a Mister Johnson, e sarebbe bello pensare che lo avrebbe scritto anche se non avesse letto il romanzo di Cary. Ma la rappresentazione di personaggi africani nella letteratura, così ricca di pregiudizi, non poteva non avere un’influenza sullo sviluppo di Achebe come scrittore. Anni dopo avrebbe scritto un famoso saggio sulla raffigurazione degli africani nel celeberrimo Cuore di tenebra, sostenendo non che Joseph Conrad non avrebbe dovuto scrivere onestamente del razzismo dell’epoca, ma che Conrad stesso, in quanto autore, non rigettava quella visione del mondo.

La stranezza di vedersi distorti nei libri (anzi, di non vedersi affatto) è stata parte della mia infanzia. Sono cresciuto nella città universitaria nigeriana di Nsukka negli anni 80, leggendo una gran quantità di letteratura per l’infanzia inglese. Le prime cose che ho scritto scimmiottavano i libri che leggevo: tutti i miei personaggi erano bianchi e tutte le mie storie erano ambientate in Inghilterra. Poi lessi Le cose crollano. Fu una scoperta scioccante, come anche La freccia di Dio, che lessi poco dopo. Fino a quel momento non sapevo concretamente che persone come me potessero esistere in letteratura, e mi ritrovavo tra le mani un libro orgogliosamente africano, struggentemente familiare ma al tempo stesso anche esotico, perché raccontava nel dettaglio la vita della mia gente cento anni prima. Essendo stato educato in un sistema scolastico che insegnava poco del passato precoloniale della Nigeria, non avendo modo di immaginare con una qualche accuratezza come fosse organizzata la vita nella mia parte di mondo nel 1890, il romanzo di Achebe assunse una dimensione molto personale. Le cose crollano non era più un romanzo che parlava di un uomo che a causa della sua esagerata mascolinità e dell’onnipresente paura della debolezza non riusciva ad adattarsi ai cambiamenti della società: era diventato la vita che mio bisnonno avrebbe potuto vivere. La freccia di Dio non parlava più soltanto della creazione dei warrant chiefs (indigeni che svolgevano funzioni di governo a livello locale) da parte dell’amministrazione britannica e dei destini collegati di due uomini, un prete Igbo e un funzionario britannico: era diventato la storia della città dei miei antenati ai tempi di mio nonno. E Ormai a disagio non era semplicemente la storia di un giovane nigeriano istruito alle prese con le pressioni delle nuove aspettative urbane a Lagos: era diventato la storia della generazione di mio padre.

Più tardi, da adulto alle prese con le raffigurazioni dell’Africa nella letteratura non africana – l’Africa come luogo senza storia, umanità, speranza – e colmo di quell’istinto difensivo e di quella vulnerabilità che nascono dalla consapevolezza che la tua umanità è considerata negoziabile, tornai a rivolgermi ai romanzi di Achebe. Nella poesia pura e cruda di Le cose crollano, nell’umorismo e nella complessità de La freccia di Dio trovai un ammonimento garbato: non azzardarti mai a credere alle storie degli altri su di te.

Considerando l’epoca e le circostanze in cui scriveva, forse Chinua Achebe era consapevole che i suoi libri sarebbero diventati, per una generazione di africani, letteratura e storia al tempo stesso. Ha scritto che se i suoi libri fossero serviti semplicemente a insegnare ai lettori che il loro passato «non era una lunga notte di barbarie da cui i primi europei, agendo in nome del Signore, li avevano liberati», gli sarebbe bastato per sentirsi soddisfatto. Occasionalmente adottava un tono vagamente antropologico nella sua narrativa: «Fortunatamente fra queste persone», ci dice in Le cose crollano, «un uomo veniva giudicato sulla base del suo valore, e non del valore di suo padre». Ma la cosa straordinaria è che l’arte di Achebe non vacilla mai sotto questo fardello di responsabilità. Un lettore che si aspetti di trovare risposte semplici nei suoi libri rimarrebbe deluso, perché Achebe è uno scrittore che sposa la sincerità e l’ambiguità e complica qualsiasi situazione. La critica degli effetti del colonialismo sugli Igbo è implicita, ma anche la contestazione della struttura interna della società Igbo. Quando Nwoye, il figlio di Okonkwo in Le cose crollano, rompe con la famiglia e la comunità per unirsi ai cristiani, è una vittoria per gli europei, ma anche per Nwoye, che trova pace e uno sbocco alle disillusioni profonde che nutre verso le tradizioni della sua gente. Quando un personaggio dice: «L’uomo bianco è molto astuto. È venuto pacificamente e senza clamore con la sua religione. Noi eravamo divertiti dalla sua dissennatezza e gli abbiamo consentito di rimanere. Ora ha conquistato i nostri fratelli e il clan non agisce più come un blocco unito. Ha conficcato un coltello sulle cose che ci tengono uniti e noi siamo crollati», il lettore è consapevole che Achebe non parla solo del coltello, ma anche delle vulnerabilità, delle complessità interne, delle fratture che già esistevano.

(Traduzione di Fabio Galimberti)

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