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Ulisse, amico mio d’infanzia

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Libri

Ulisse, amico mio d’infanzia

In balia di nettuno. Pellegrino Tibaldi, «Nettuno e la nave di Ulisse», ciclo Storie di «Ulisse 1549-51», Bologna,  palazzo Poggi
In balia di nettuno. Pellegrino Tibaldi, «Nettuno e la nave di Ulisse», ciclo Storie di «Ulisse 1549-51», Bologna, palazzo Poggi

Avevo otto anni quando uno zio mi regalò un libro per ragazzi, ragazzi di allora si intende, il cui titolo era Il romanzo di Ulisse, autore Luigi Ugolini. In questo libro veniva raccontata, in un italiano diverso da quello di oggi, la storia dell’Odissea con le illustrazioni che circolavano allora. Non era propriamente l’Odissea, ma una narrazione in prosa, in cui negli ultimi capitoli si menzionavano Dante, Tennyson, Pascoli. La storia era sempre quella, l’ultimo viaggio che Tiresia profetizza a Ulisse nell’Odissea e che viene ripreso sotto altre spoglie da questi grandi poeti. A otto anni ci credevo, credevo che quella storia potesse continuare con gli scrittori successivi, dei quali io conoscevo soltanto Dante.

Poi, c’erano le immagini. Proprio allora, mia madre cominciò a portarci in visita ai Musei Vaticani. Un pezzo nuovo ogni settimana. Due ore di sfrenato gioco a nascondersi fra le ombre colossali del colonnato di San Pietro si pagavano con due ore nei Musei, allora quasi deserti nei mesi da novembre a marzo. Ebbene, là dentro c’era una Galleria che conteneva il portolano di Giovanni da Verrazzano con l’inclusione delle scoperte americane, e i mappamondi antichi, dove, andando da un globo all’altro, si vedono l’oceano Atlantico e le terre dell’occidente di retro al sol prendere forma a poco a poco, come se, passo dopo passo, venissero da noi stessi percorse. E c’era una sala chiamata delle Nozze Aldobrandini. In questo piccolo locale si trovano l’affresco famoso degli sponsali che a esso danno il nome e una serie di sei riquadri e mezzo dipinti nel tardo I secolo a.C. e provenienti da una villa romana sull’Esquilino. Gli affreschi rappresentano... le vicende dell’Odissea, con meravigliosi paesaggi di rocce e mare e navi: i Lestrigoni, Circe, soprattutto l’ingresso e la visita all’Ade.

Nella mia mente, allora, queste scene di Ulisse che incontra i giganti e i morti si confondevano con quelle, che immaginavo, di Colombo, e dei suoi successori, con gli indigeni del Nuovo Mondo. Nessun dubbio: era l’Odissea, e il Diario di bordo dell’Ammiraglio. Sette erano passate, e l’ottava stava passando. Il riquadro di Ade della Sala delle Nozze Aldobrandini è all’origine di questo Grande racconto di Ulisse, pieno di centinaia di immagini che narrano la sua storia.

Ora, c’è qualcosa di più del libro regalato dallo zio e della Sala in Vaticano. C’è la memoria di una passione che risale all’infanzia. Nella casa della nonna materna mio fratello, io e i nostri numerosi cugini giocavamo, nell’enorme ingresso, alla guerra di Troia. Fabbricavamo lance e spade arrotolando giornali vecchi fino a ottenerne tubi solidi e dolorosi; usavamo i piatti di cartone argentato sui quali le pasticcerie avevano deposto le torte, per farne scudi. La preparazione durava ore, la battaglia infuriava per poco tempo, con duelli di invereconda intensità: i duelli dell’Iliade, sui quali si litigava a lungo, prima del combattimento, con acribia quasi filologica («No, Aiace ha detto o fatto questo, non quello che dici tu»). Ebbene, mentre il mio nobile fratello, più giovane di me, sceglieva sempre la parte di Ettore, io invariabilmente volevo essere Ulisse. Non tanto per il desiderio di farla finita con tutti i parenti troiani e ardere l’avita dimora (benché almeno il primo fosse certamente presente nel mio animo), quanto perché sapevo che era il più intelligente, il più furbo, il più facondo di tutti: e soprattutto perché mi affascinava il dopo. Vincere la guerra di Troia era una bella soddisfazione, ci si sentiva come quegli americani di cui i grandi discutevano strategie e potenza nella sala da pranzo. Ma sapere che poi si sarebbe percorso il mondo, incontrato Ciclopi e Sirene, che si sarebbero potute raccontare storie senza fine, e quindi arrivare a casa travestiti, distruggere i maledetti Proci (i tedeschi?), farsi riconoscere. E poi ripartire. Questo era meraviglia pura, il piacere vero.

Conoscevamo, dunque, l’Iliade e l’Odissea, le loro trame, i discorsi. Naturalmente, non avevamo, tra i cinque e i sette anni, compulsato i poemi stessi. Ce li avevano raccontati i grandi. Eccolo qua, Ulisse: perdeva tutto, mentre di tutto il mondo diveniva esperto; si riduceva a nulla, a Nessuno, lui che era re, aveva conquistato Troia ed era il protetto di Atena. Ma che storia! Bella come quella di Giuseppe e i suoi fratelli. Quando giunsi alla scuola media, e finalmente ci diedero in mano prima l’Iliade di Monti, e poi l’Odissea di Pindemonte, obbligandoci – siano ringraziati i numi – a impararne a memoria lunghi brani e a farne l’analisi logica, la mia felicità raggiunse altezze mai prima arrivate. Erano qui, finalmente, i poemi sacri. Difficili, sì, in quell’italiano curioso, cadenzato, invertito («arrogi, la vecchiezza increscevole che il colse»: e che mai poteva voler dire «arrogi»?). Però, splendidi. Amai molto l’Iliade e capii la passione di mio fratello per il domatore di cavalli Ettòrre. Ma l’Odissea conteneva anche l’Iliade, e anzi il suo ricordarne gli eventi dopo anni e anni appariva persino più affascinante. Elena racconta a Telemaco dello spionaggio di Ulisse, da lei sola riconosciuto, in Troia. L’aedo Demodoco canta l’agguato del cavallo. E Ulisse, nell’Ade tenebrosa, conversa con Agamennone e Achille.

Quante scene indimenticabili! L’incontro con Nausicaa, Atena travestita da pastorello; la vecchia nutrice Euriclea che lava la coscia, sfiora la cicatrice, riconosce il padrone; il vecchissimo, morente cane Argo. E poi, c’erano le mirabolanti avventure, i pericoli ai quali Odisseo scampava sempre per un pelo e per la sua capacità di ragionare: i cannibali Lestrigoni; i Ciclopi, pastori cavernicoli ignari di agricoltura, che si nutrono solo di latte, formaggio e carne umana; i mangiatori del Loto che tutto fa dimenticare; Eolo e l’origine dei venti; Scilla e Cariddi; le paralizzanti Sirene; i civili Feaci la cui imbarcazione veniva trasformata in sasso dalla forma di nave.

Un amico di mio padre mi aveva regalato Sette sono passate e l’ottava sta passando di Paul Herrmann. Herrmann raccontava i viaggi e le esplorazioni degli uomini, da quelli dell’età della pietra agli egiziani e ai fenici, dai greci agli arabi ai polinesiani, dai vichinghi a Marco Polo, da Bartolomeo Diaz a Colombo, Vespucci, Vasco da Gama, Cortés, Pizarro, Cook. E che altro erano questi se non i viaggi dell’Odissea, la conoscenza e l’appropriarsi del mondo che l’uomo aveva compiuto in decine di migliaia di anni? Uno stupore sconfinato mi prendeva quando passavo dal poema a quei libri, dai libri a Omero. Il padre di mio padre, quando avevo sui cinque anni, mi aveva letto un po’ di Dante: seduti a capotavola nell’immensa sua sala da pranzo, dall’edizione illustrata di Doré. Anche lì c’era la storia di Ulisse, ed era in qualche modo una prosecuzione dell’altra: questo Ulisse passava addirittura aldilà delle Colonne d’Ercole, andava a scoprire l’America. È difficile dire l’effetto che l’Odissea di Pindemonte e «Inferno» XXVI ebbero su di me. Molti anni più tardi scoprii, per fortuna, che qualcuno l’aveva descritta completamente, quell’esperienza, in un sonetto che sembrava fatto apposta per tutti coloro che incontrano il secondo poema omerico. Una sera dell’ottobre 1816 il poeta romantico John Keats si imbatté per la prima volta nella traduzione seicentesca dei poemi omerici compiuta da George Chapman. Passò quella notte con un amico, a leggere soprattutto il Libro V dell’Odissea. Tornato a casa sua, all’alba del giorno successivo, inviò all’amico una lettera. Conteneva soltanto un sonetto, Guardando per la prima volta l’Omero di Chapman: «Molto ho viaggiato pei reami d’oro / e visto molti stati e regni buoni; / tra molte isole d’Occidente ho errato / che i poeti possiedono in feudo da Apollo. / Spesso d’una landa immensa m’era stato detto / che Omero dalla fronte fonda ha in suo dominio, / ma mai respirai il suo puro sereno / sinché non udii Chapman parlare alto e audace. / Allora mi sentii come chi osservi il cielo / quando un nuovo pianeta nuota nel suo sguardo, / o come Cortés il forte quando gli occhi d’aquila / spalancò sul Pacifico, e tutti i suoi uomini / con folle domanda si guardarono, / silenti, su un picco a Darièn».

Ecco cosa fa l’Odissea: produce, come un lampo, un’altra odissea: un canto che strega. Le immagini dell’errare sulla terra e nella poesia si sovrappongono l’una sull’altra: i paesi dell’uomo, l’Eldorado e le Isole dei Beati; l’immensa landa al di là dell’oceano, l’Occidente e l’altro, infinito mare; Cortés che fissa Città del Messico e Balboa che contempla il Pacifico dalla vetta di Darièn. Ma, anche, reami di favoloso poetare, arcipelaghi di aedi, il Nuovo Mondo retto da Omero. L’incontro con l’Odissea provoca il colpo di emozione e di meraviglia che ferisce scienziati, scopritori, poeti, lettori. Keats si sente come colui che scruta i cieli e vede per la prima volta un nuovo pianeta ai confini dell’universo navigare, cosmico cetaceo, entro la sua vista telescopica: prova lo stordimento d’animo che Herschel deve avere sperimentato quando scoprì Urano nel 1781. Lo stesso stupore che provano il poeta e il filosofo, chi ama i miti e chi ama la sapienza.

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