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Quella sgualdrina fa l’artista

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creatività femminile

Quella sgualdrina fa l’artista

Fin-de-siècle. Étienne Azambre, «Au Louvre», 1894
Fin-de-siècle. Étienne Azambre, «Au Louvre», 1894

«La seria intrusione della donna nell’arte sarebbe un disastro senza rimedio. Cosa succederà quando degli esseri dallo spirito tanto terra terra quanto può essere quello delle donne, creature sprovviste di un vero dono immaginativo, saranno libere di manifestare il loro orribile buon senso artistico?», scriveva Gustave Moreau tra una Salomé e l’altra, evidentemente troppo stregato e ossessionato dalle femmes fatales che dipingeva per poterle considerare, anche, intelligenti.

E, come lui, la maggior parte dei critici e degli storici dell’arte dell’Ottocento fino ai primi del Novecento avranno bisogno di stigmatizzare e svilire in questo modo le donne che si dedicavano alla pittura e alla scultura; quando erano costretti, dall’evidenza, a riconoscere il talento se non addirittura la genialità di un’artista (è il caso di Octave Mirbeau di fronte alle opere di Camille Claudel), facevano comparire giudizi quali «dotata al pari di uomo», «arte maschia», «carattere virile»… È un mondo scopertamente fallocentrico e misogino quello con cui le artiste dell’epoca dovranno fare faticosamente i conti, ben riassunto da Flaubert nel suo Dictionnaire des idées reçues alla voce «donna artista»: «non può che essere una sgualdrina. Saccente».

Il ricchissimo saggio di Charlotte Foucher Zarmanian, corredato da un affascinante apparato iconografico in parte inedito, sulle créatrices attive a cavallo tra i due secoli muove da queste premesse, e dall’articolo del 1971 di Linda Nochlin intitolato provocatoriamente «Perché non ci sono state grandi artiste donne?», per dimostrare come e perché, nell’ambito delle fonti bibliografiche relative alla storiografia del simbolismo, si evidenzi a lungo una quasi totale assenza di nomi femminili.

L’autrice mira a riscoprire, o piuttosto a «esumare un simbolismo sepolto», nascosto, ma mai assente, che le donne hanno rappresentato in diversi modi, talune con risultati eccezionali. Esplorando le strategie «camaleontiche», prudenti o sovversive che esse hanno adottato per trovare un proprio posto nell’arte (camuffamento, utilizzo di pseudonimi, cinismo e ironia, mecenatismo, e molto altro), il testo rivela la tenacia, l’audacia e il coraggio con cui, in epoca simbolista, le donne hanno potuto comunque creare, anche se spesso nell’ombra. L’arco temporale preso in esame va dal 1880 al 1914 circa e le artiste a cui il testo vuole restituire valore e legittimità, facendole uscire da un limbo invisibile in cui sono state troppo spesso relegate, sono circa una sessantina, non solo di area francese.

Interessanti i casi di alcune «creatrici» come Sarah Bernhardt e Judith Butler, alle quali non veniva perdonato di accontentarsi di eccellere in una sola arte; entrambe capaci di farsi notare anche nella scultura, a cui si dedicavano con passione, venivano pesantemente schernite e ridicolizzate poiché, come altre artiste dell’epoca, evocavano l’ideale rinascimentale di femina universalis che nei turbolenti anni fin-de-siècle spaventava e irritava i colleghi maschi, sempre più spesso chiamati ad essere uomini (e artisti) “con qualità”, e sempre più consapevoli, al contrario, delle loro, talora non facilmente camuffabili, debolezze.

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