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Gnam: Canova parla con Penone

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Gnam: Canova parla con Penone

Allestimento. Nuova sala della Gnam
Allestimento. Nuova sala della Gnam

Cristiana Collu apre il sipario sulla collezione permanente della Galleria Nazionale d’Arte Moderna a Roma. In sette mesi di lavori ha tolto la polvere dalle sale, i pavimenti sono tornati quelli originali, via gli oscuranti alle finestre, via le pannellature alle pareti, via - in molti casi - i piedistalli sotto le sculture. La luce entra di nuovo in questo edificio progettato alla fine dell’Ottocento proprio per contenere l’arte contemporanea italiana. E l’unico Museo Nazionale con una collezione degna di questo nome riapre al pubblico. Time is Out of Joint - questo il titolo del nuovo allestimento - integra completamente le collezioni di Otto e Novecento. Così, dopo il lavoro “fondante” sull’edificio per recuperarne l’architettura originale, ecco il lavoro sui fondamenti della storia dell’arte, una storia che non esiste più in favore di un racconto per immagini o dei rapporti che intercorrono tra l’opera e l’osservatore. È un allestimento che va per questioni sentimentali, o per problemi di forma che le opere diacronicamente si pongono.

La prima sala già dice tutto in questo senso: l’imponente gruppo marmoreo di Antonio Canova (1795-1813) con Ercole che scaglia Lica nel cielo è messo davanti all’enorme Giuseppe Penone (2002) in cui l’impronta delle labbra dell’artista è ingigantita su una superficie di trentasei metri quadri dove sono manualmente conficcate migliaia di spine d’acacia; qui si tratta dell’assoluto, della passione, delle energie dionisiache e di come esse si manifestano nella creazione artistica.

Nella seconda sala un piccolo nudo di Rodin è messo accanto a due donne dai tratti essenziali di Modigliani che sembrano avvicinarsi ai profili trasognanti di due innamorati di De Dominicis e introduce il tema dell’amore per il tratto e per la linea che dimostra l’interesse onnipresente degli artisti per la forma. Nella terza sala due studi di nudo per la Gorgone di Aristide Sartorio (1899) sono accostati alle Poupeé di Hans Bellmer (1930 c.ca) e ci parlano delle disarticolazioni del corpo al di là degli stili.

Memorabili sono accostamenti, anche tra opere maggiori e minori, che suggeriscono la logicità di alcune sequenze formali, come un taglio verde acido di Fontana (1959) a un quadro ottocentesco che raffigura la Luna sulle tavole di un’osteria (1884) o una serie di fotografie di Roma di Gabriele Basilico, vicino a una tipica veduta da Grand tour del 1890; o quando al realismo di Segantini viene affiancato un Paesaggio italiano di Mario Schifano.

Si parla di forme, ma anche di sentimenti come nella “sala delle battaglie” dove le enormi tele di Giovanni Fattori sono allestite vicino a un Burri dalla plastica rossa e pesante accartocciata, la bellissima Crocifissione di Guttuso è speculare a un’appassionante ceramica di Leoncillo, Il bombardmnento notturno. Quanto è vivo Adolfo Wildt con il suo San Francesco di marmo candido accanto a una signora che ci si fa il selfie.

In generale si percepisce un senso di grande ordine e chiarezza. I capolavori sono presenti e si parlano. Il gusto espositivo degli ultimi anni, almeno nell’arte contemporanea, ci ha abituati a questo esporre per temi e problemi.

Anche la scultura ritrova il suo spazio, con i mc di terra di Pascali collocati in alto, sopra a una lamiera accartocciata di Chamberlain e un tavolo in cui sono raccolti tutti i bozzetti ottocenteschi, come in un nuovo atlante warburghiano.

Si affacciano all’orizzonte tutti i pensatori che hanno rinnovato il modo di fare storia: Belting, Freedberg, Benjamin perché, sè vero che l’unica via di accesso al passato è possibile solo alla luce del presente, e quindi non ha più senso mostrare le opere in maniera cronologica, nella ridondanza di questo metodo si cancella a volte anche l’opera stessa. Se possiamo accostare un Barocco di Lucio Fontana a una vezzosa veduta notturna di Piazza San Marco e al Ritratto di Mademoiselle Lanthelme di Giovanni Boldini, parliamo di una pittura di genere, forse, ma stiamo annullando completamente i contenuti di quelle opere. Per fortuna, come sostiene Didi Huberman, «l’opera d’arte è capace di mettere in dialettica tempi diversi e ha spesso più memoria e più avvenire di colui che la guarda».

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