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Il miracolo in un’ampolla

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Storia

Il miracolo in un’ampolla

La cappella del tesoro. Particolare della  volta raffigurante «La Vergine che intercede per Napoli», Domenichino, 1631-1633
La cappella del tesoro. Particolare della volta raffigurante «La Vergine che intercede per Napoli», Domenichino, 1631-1633

Scappava, Pietro Giannone. Scappava a gambe levate. Via da Napoli, verso la natia Capitanata e le coste del Gargano. Verso l’Adriatico, e una qualche nave diretta al nord. Verso Vienna, la nuova capitale. Per lui, per l’incauto autore della Istoria civile del Regno di Napoli, pareva non esistere altro rimedio che la fuga, in quel disgraziato mese d’aprile del 1723. Da quando si era diffusa la voce che, nella Istoria civile fresca di stampa, Giannone avesse negato la natura miracolosa della liquefazione del sangue di san Gennaro, ecclesiastici di ogni specie e di ogni rango si erano fatti in quattro per scatenare la macchina del fango. Presuli dalle anticamere, frati dai chiostri, sacerdoti dai pulpiti, gesuiti dai torchi, avevano mobilitato contro lo scrittore anticuriale le «vili feminette», la «gente semplice e plebea». «Questa machina appunto adoperarono contro di me cotesti uomini pii, e religiosi. Si declamava per ogni angolo, ch’io negassi un sì evidente miracolo».

L’accusa suonava tanto più grave in quanto di lì a poco – il 1° maggio – doveva rinnovarsi il miracolo periodico della liquefazione. E in caso di mancato scioglimento del sangue, chi avrebbe protetto la città di Napoli dalle più varie calamità che regolarmente la minacciavano, le pestilenze, le guerre, le eruzioni del Vesuvio? Il 1° maggio, il martire cristiano avrebbe forse testimoniato del suo cruccio non solo contro il giurista miscredente, ma contro i napoletani tutti? Perciò Giannone scappava, scappava finché era in tempo. Perciò un suo fratello rimasto a Napoli aveva «tolto il migliore dalla casa», ritirandosi «in luogo ignoto e lontano dalla città». E poco importa se, nel giorno fatidico, il responso del sangue sarebbe riuscito ambiguo («si ritrovò parte liquefatto, e parte duro»). A Napoli, Pietro Giannone non avrebbe mai più rimesso piede, nell’agro quarto di secolo che pur gli restava da vivere.

Oggi – tre secoli più tardi – il sangue di san Gennaro ancora fa notizia, fin dentro le nostre cronache più recenti. Rinnovando l’attualità di una storia, quella del rapporto fra il sangue del santo e la città di Napoli, inaugurata oltre tre secoli prima della disavventura editoriale di Giannone: nell’anno 1389, con il primo episodio attestato di liquefazione. Storia risalente, dunque, al tardo Medioevo. Cioè a una stagione particolarmente propizia per un vissuto del cristianesimo così materico da sembrare pulp, fatto di manne dal cielo, di ostie sanguinanti, di reliquie ematiche del Golgota, come pure di stigmate di san Francesco, e di sacre sindoni.

Con un libro impeccabile nel metodo e impressionante nell’erudizione, Francesco Paolo de Ceglia ha ricostruito adesso i sette secoli o quasi di questa storia: la suggestiva vicenda (secondo il titolo) del «segreto» di san Gennaro, ovvero (nel sottotitolo) la «storia naturale di un miracolo napoletano». Non già – evidentemente – per determinare se miracolo ci sia davvero o non ci sia per nulla, ma piuttosto per ricostruire l’universo materiale e mentale di chi, da sette secoli in qua, quel miracolo ha riconosciuto come vero, consolante, salvifico; oltre all’universo di chi, da tre o quattro secoli a questa parte, nel miracolo ha intravisto il trucco.

Se le prime attestazioni risalgono alla fine del Trecento, la costruzione compiuta del miracolo napoletano va registrata intorno alla metà del Quattrocento. Allora si fissa il rituale per cui il tabernacolo contenente la doppia ampolla con il sangue di san Gennaro viene avvicinato dall’officiante al cranio del santo stesso, conservato in Duomo entro un reliquario antropomorfo: e per cui soltanto l’interazione fra le due reliquie – accompagnata da uno scuotimento del tabernacolo – provoca lo sciogliersi di un liquido che si presenta, altrimenti, allo stato normale di sangue rappreso. Seguono, nel corso del Cinquecento, le teorizzazioni più o meno eloquenti di tale organica «simpatia». Fino al trionfo seicentesco del culto in quello scrigno architettonico partenopeo che è la Cappella del Tesoro, dove magnificamente si dispiega l’arte pittorica del Domenichino.

Non per caso, nel pennacchio della volta, LaVergine intercede per Napoli raffigura l’intervento ematico di san Gennaro come un momento decisivo nella guerra scatenata dalla Chiesa di Roma contro l’eresia di Lutero e di Calvino: perché sin dagli esordi della Riforma protestante, e poi sempre più durante le guerre di religione, era stato dal Nord Europa che avevano risuonato le critiche più severe (oltreché le più sarcastiche) contro il preteso miracolo della liquefazione. Nella doppia ampolla napoletana non si poteva forse immettere una buona dose di calce viva che, eccitando il liquido rappreso, lo rendesse «spumante» come lo volevano i devoti? Questa l’ipotesi del teologo ugonotto Pierre du Moulin, cui si sarebbero aggiunte – dal Seicento al Novecento – innumerevoli altre proposte di decifrazione del segreto e di denuncia dell’impostura.

Il sangue di san Gennaro interrato in una ghiacciaia, «congelato nel modo in cui costoro [i napoletani] fanno i sorbetti». Il sangue di san Gennaro quale composto altrettanto astuto che truffaldino, un amalgama d’oro e di solfuro di mercurio. Il sangue di san Gennaro abilmente dissimulato in due tabernacoli identici, l’uno contenente liquido e l’altro contenente gel. Il sangue di san Gennaro prodotto da «sanguisughe ingozzate, con la bocca delicatamente sigillata». Il sangue di san Gennaro replicato e replicabile, in laboratorio, aggiungendo solfato di sodio a sangue di bue, ecc. ecc. «E voi, vi lascierete trovare ancora coll’umiliante composizione chimica che gl’impostori vi spacciano come sangue di san Gennaro, e con cui si beffano di voi da tanti anni? Non sarà bene di frangere per sempre quell’ampolla contenente il veleno?»: così, nel 1869, un mangiapreti che di nome faceva Giuseppe Garibaldi.

Ma la lunga storia non è finita lì, durante la breve parentesi di storia nazionale che è stata quella di un’Italia laica. Né è finita quando, corrente l’anno 1991, tre scienziati italiani hanno pubblicato su «Nature» un intervento che riduceva lo straordinario miracolo di san Gennaro a ordinario fenomeno di tissotropia. Stante «la proprietà di alcuni gel di liquefare quando mescolati o sottoposti a vibrazioni, e di solidificare di nuovo quando lasciati stare», si poteva ben ritenere che il liquido della doppia ampolla avesse poco di diverso da una banale miscela di cloruro ferrico, carbonato di calcio, acqua, e un pizzico di sale da cucina... A questi tre autorevoli scienziati, uno scienziato altrettanto autorevole – cui la curia di Napoli aveva permesso di compiere, dal 1979 al 1983, studi ravvicinati sull’ampolla – ha risposto negando, rilevazioni alla mano, che il comportamento della reliquia avesse «nulla a che vedere con la tissotropia».

Sì, la storia continua. Anche perché, notoriamente, chi ha bisogno di miracoli non cerca prove, ma segni. Non vuole ragionarci, vuole crederci. A tutt’oggi – con buona pace del generale Garibaldi – l’ampolla non è stata franta.

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