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Finimondo al Museo Pecci

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Finimondo al Museo Pecci

Rifatto & riallestito. Il Museo d’Arte Contemporanea Pecci di Prato ha riaperto i battenti  una settimana fa con la mostra «La fine del mondo», dopo dieci anni di chiusura e lavori
Rifatto & riallestito. Il Museo d’Arte Contemporanea Pecci di Prato ha riaperto i battenti una settimana fa con la mostra «La fine del mondo», dopo dieci anni di chiusura e lavori

Lo hanno rifatto. Il Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci è stato completamente rinnovato, comprendo l’architettura preesistente – brutta alla nascita e in seguito usurata – con una bolla dorata che ne raddoppia la superficie portandola a 3000 metri quadri. L’architetto Maurice Nio si dice parzialmente soddisfatto, ma è anche vero che l’opera ha richiesto i soliti dieci anni italiani. Il tappo a forma di UFO che copre la struttura precedente ha un interno chiarissimo e finalmente articolato, cioè lontano dal percorso obbligato nato nel 1988. Ora si presta a mostre ricche di sorprese e di incroci disciplinari, a patto che non mostri cedimenti strutturali come la recente caduta di un controsoffitto.

La Regione Toscana, che ne ha fatto il centro propulsore del territorio per il contemporaneo, pare crederci molto: la Contemporary Tuscany si è occupata di distribuire nella città di Prato un percorso di opere pubbliche; i galleristi toscani si sono ritrovati in un edificio di archeologia industriale locale per la mostra di giovani locali TU35/2016; nel Fabbricone sono stati allestiti progetti del concorso internazionale per il Parco centrale di Prato. Sono state coinvolte anche le città di Pisa, Vinci e Firenze con opere della collezione del Pecci.

Forse si è un po’ esagerato nell’enfasi: l’inaugurazione è stata chiamata Grand Opening – una tre giorni di convegni, mostre, presentazioni, convegni, con l’intenzione di dare una continuazione anche al Forum dell’Arte che era stata, nel settembre del 2015, una premessa a questa inaugurazione faraonica.

La prima rassegna si chiama niente meno che La fine del mondo, un titolo che riecheggia ribaltandoli alcuni titoli della Biennale di Venezia, come Fare Mondi di Daniel Birnbaum e All the World’s Futures (2009) di Okwui Enwezor (2015). In realtà molti degli autori e anche un po’ della struttura curatoriale è presa proprio dal metodo che ha connotato nell’ultimo decennio le grandi mostre periodiche.

Anzitutto, il direttore Fabio Cavallucci, che arriva a questa prova alla fine del suo primo mandato, si è avvalso di una quindicina di consulenti internazionali dando la sua versione di un lavoro intellettuale di squadra. Tra i coinvolti ci sono nomi locali e prevedibili, come Pierluigi Tazzi che accompagna in vario modo il Pecci dalla sua nascita, ma anche artisti come Jota Castro e altri nomi italiani e stranieri.

Inoltre, si è cercato di limitare l’acquiescenza al sistema commerciale dell’arte, benché troviamo nella cinquantina di artisti prescelti molti con una buona fama e/o una galleria forte alle spalle, come, tra gli altri, Darren Almond, Adel Abdessemed, Kader Attia, Rossella Biscotti, Olafur Eliasson, Carlos Garaicoa, Camille Henrot, Thomas Hirshoorn che apre la rassegna con un ingresso catastrofico e liberatorio. Ancora, c’e molta commistione tra discipline e soprattutto tra epoche. Nella crisi di uno specifico visivo che riguardi l’arte e a favore di componenti corporali, concettuali, sonore, teatrali, vicine al cinema, all’architettura, alla danza e ad altre espressioni performative, si sono raccolte proposte che arrivano a nomi di grandi star come Didier Fiuza Faustino nell’architettura o Bjork nella musica.

Infine si è dato spazio, proprio come nelle ultime Biennali e Documenta, a un’impostazione che prescinde dal tempo strettamente attuale favorendo carotaggi non solo verso il Novecento, con opere di Marcel Duchamp Pablo Picasso, Umberto Boccioni, Lucio Fontana, ma anche nella sociologia che sconfina nell’antropologia e quindi nella preistoria. Non può non venire in mente la sezione The Brain di Documenta(13) e l’impostazione generale della Biennale curata da Massimiliano Gioni nel 2013. Al contempo, si sente odore anche di una recente moda storiografica, incarnata soprattutto da Georges Didi-Hubermann, nota con il termine Anacronismo e protesa a collegare tra loro momenti molto lontani per temporalità e disciplina, del fare umano nell’ambito creativo: una risposta allo storicismo modernista che ha trovato una spalla notevole anche nelle università americane e in studiosi come Alexander Nagel.

Con queste premesse, la totalità delle iniziative sembra proporre l’attuale momento storico come il risultato di molte sedimentazioni e come un messaggio da portare in avanti, verso le future generazioni, quasi si fosse alla fine di un’epoca paleo tecnologica. L’uomo che verrà guarderà forse ai nostri esperimenti come a balbettii poco compiuti ma, si spera, fondanti per le stagioni a venire. Questo il senso di un titolo che richiama qualche catastrofismo, ma che invece, nelle intenzioni di Cavallucci, vorrebbe porsi come fiducioso e capace di immetterci tutti in una eccitante time capsule.

Per ora attendiamo di vedere se questo ulteriore macrorganismo museale funzionerà: i dubbi sono di prassi, dopo aver visto la prima fase del Pecci e soprattutto i destini spesso fallimentari di gigantismi espositivi come il Macro e il Maxxi a Roma, il Mambo di Bologna, il Mart di Rovereto. Un museo piccolo come il Madre di Napoli si dimostra più agevole e forte nella sua compattezza. Si dimentica troppo spesso che nessuna città italiana ha la massa critica di Londra, Parigi o New York, e che un eccesso di fiducia nella partecipazione del pubblico si protende verso il muro invalicabile del basso numero di cittadini.

Nell’attirarli, certo avranno importanza le iniziative dell’auditorium, di una biblioteca rinnovata che può aspirare a essere un centro di studi collegato a realtà universitarie, del teatro all’aperto. La scommessa è iniziata, speriamo non sia un fuoco d’artificio in cui si è sparato troppo all’inizio come accadde trent’anni fa.

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