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Così finì la Squadra d’Oro

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Puskás & co

Così finì la Squadra d’Oro

Uno con un padre di nome Lajos non poteva che avere un destino segnato: Gábor nacque nell’Ungheria degli anni Quaranta, quando tre erano «le categorie di cittadini: chi è stato in prigione, chi è in prigione e chi andrà in prigione». Nel ’48-49 fu uno dei tanti a posare un mattone del Népstadion, lo «stadio del popolo» che si stava costruendo nella Budapest del dopoguerra; dopodiché crebbe ragazzo negli anni Cinquanta, nel Paese delle rivolte e dei carrarmati, delle armate rosse e delle piazze rosse del sangue dei manifestanti. Ma è di un altro rosso ancora che parla La squadra spezzata di Luigi Bolognini: il rosso delle maglie di calcio della gloriosa nazionale magiara, «la Grande Ungheria di Puskás», miccia dell’altrettanto gloriosa «Rivoluzione del 1956».

In questo libro, ristampato da 66thand2nd a 60 anni dall’insurrezione popolare e conseguente invasione sovietica, «politica e sport vanno a braccetto, mai però amichevolmente. Il calcio è solo un pretesto, corposo, in quello che si può definire un romanzo di formazione», scrive nella prefazione Gianni Mura, mentre, nella postfazione, Roberto Beccantini annota: «L’Ungheria di quegli anni fece da laboratorio a una duplice rivoluzione. La prima, rigata da un sinistro che sparava cannonate. La seconda, sferzata da cannonate sinistre».

L’allora Nazionale ungherese era «Aranycsapat», la «squadra d’oro»: «Se la guardi giocare e poi vai a vedere il museo di Belle arti, apprezzerai di più certi quadri», spiegava Lajos al figlio tifoso. I dorati, trainati da Ferenc Puskás, inanellarono una serie di vittorie, dalle Olimpiadi del ’52 al «match del secolo» a Wembley un anno dopo. Nel ’54 si disputò invece in Svizzera la Rimet, alias Coppa del Mondo, scippata in modo poco chiaro dalla rivale borghese per eccellenza: la Germania Ovest. Gábor, come molti, si disperò; l’amico, viceversa, fece notare: «Sai, sono contento che abbiamo perso... Serviva perdere la Rimet per ribellarsi. Per la dittatura non protesta nessuno».

Così si avverò, se pur al contrario, la profezia dell’allenatore, per il quale «tutto era politica e politico, anche ogni partita: “L’aspra lotta tra il capitalismo e il socialismo comincia prima su un campo da calcio che altrove”». La rabbia e l’orgoglio, per la sconfitta subita e il comunismo subito, passarono direttamente dal campo alla piazza. Non tutti, però, si fecero sedurre da rivoluzione e pallone: ad andare nel pallone fu proprio la Squadra d’oro, che, nell’ottobre 1956, era in trasferta, nel suo esilio dorato, e scelse di restarci ancora per molto, zigzagando in mezza Europa pur di non tornare nella patria in rivolta. Puskás, da eroe mancino e un poco sinistro, fu il primo a defilarsi: venne a svernare «in Italia, a Sanremo, dove ingrassò di quasi venti chili in pochi mesi». Gábor, invece, da uomo qualunque, «corse verso la rivoluzione, con la maglietta rossa col numero 10, pronto a dribblare tutti e tutto, anche il destino».

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