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Quel giorno, esule in Italia

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la testimonianza

Quel giorno, esule in Italia

Nella classe IV A del liceo Ferenc Kölcsey di Budapest nessuno dei 32 diciottenni pensava che l’imminente esame di maturità del giugno 1956 potesse rappresentare una svolta radicale della propria vita. Nessuno si sognava lontanamente che sei mesi più tardi almeno la metà di loro si sarebbe trovato profugo in un Paese dell’Occidente. In quei giorni il pensiero era rivolto allo studio, ma in segreto regnava l’angoscia per l’esito dell’esame successivo: quello dell’ammissione all’Università.

Chi scrive si trovò tra le mani, nel giro di 45 giorni, la famigerata cartolina postale a firma del Rettore dell’Università di Medicina: “non ammesso per numero limitato di posti” ovvero avevano prevalso le ragioni politiche. La mia colpa fu l’eredità di un terreno agricolo e per questo diventai “nemico del popolo” perciò non ammesso. Mi sembrava di buon auspicio accettare un lavoro da inserviente nella Farmacia dell’Università con l’intenzione di tentare l’anno successivo l’ammissione, ma la storia decise diversamente.

Martedì 23 ottobre era una magnifica giornata di sole. Settimane prima era insorta la Polonia e da noi avvisaglie dell’insurrezione studentesca erano partite da Szeged. Un corteo di studenti sfila a Budapest dall’Università al Parlamento e quando vi arrivano le fila si sono ingrossate di operai, intellettuali, impiegati, uomini e donne, 150mila persone circa. Una delegazione di studenti tenta di leggere alla Radio un proclama in 16 punti dei rivoltosi. Si trattava di richieste sacrosante, che venivano condivise immediatamente dalla stragrande maggioranza del Paese. Alla Radio Nazionale però l’Avo, la polizia politica, spara e due ragazzi perdono la vita. La notizia corre in un battibaleno tra la folla, sventolano ovunque come simbolo della rivolta le bandiere nazionali bucate. Il tram su cui mi trovo viene fermato dalla gente, e mi mettono in mano il foglio con le 16 richieste. Lo leggo e corro in ufficio da mia madre, che lo trascrive in un moltiplicatore e poi comincio a distribuire. La folla scandisce il nome di Imre Nagy, il quale poco dopo si affaccia a un balcone del Parlamento e tenta di sedare l’insurrezione. Alle 21,26 la statua di Stalin, costruita accanto alla Piazza degli Eroi, viene abbattuta e fatta a pezzi. La Rivoluzione nacque così, spontanea e “acefala”, come scrisse Indro Montanelli. Ripensandoci a mente fredda, fu un evento assurdo portato avanti da un pugno di entusiasti, armati lì per lì, senza rifornimenti e senza capi. Io avevo 18 anni e da pochi giorni ero entrato nella “Guardia Nazionale” del governo provvisorio.

Poi arriva il 4 novembre, quando il generale Konev, comandante delle truppe sovietiche, ordina a 6mila carri armati e 100mila soldati di spostarsi dalla periferia al centro del Paese. Per Mosca tutto doveva durare 3 giorni, invece ce ne vollero sette per annegare nel sangue il sogno di libertà dell’Ungheria, che causò 2.500 morti e mandò esuli oltre 200mila magiari.

Il 30 novembre mio padre decise di espatriare. Prendemmo un treno diretto alla frontiera, ove due contadini in cambio di soldi promisero di portarci in Austria. Una volta lì, ci fecero dormire in una scuola attrezzata per accogliere profughi, poi riuscimmo a raggiungere un cugino di mio padre, che ci diede ospitalità. Io andai a Vienna per studiare Chimica, poi finalmente ottenni una borsa di studio per studiare Medicina all’Università di Padova. Giunsi al Collegio Antonianum e per concessione del Rettore Guido Ferro, nel gennaio del ’57, potei iniziare i corsi. Non sapevo una parola d’italiano quindi per 40 giorni non mi dedicai ad altro: il mio obiettivo era quello di entrare nella mentalità del Paese ospitante, fare amicizie e abbandonare l’abito dell’esule. Per un anno e mezzo la mia vita fu solo l’Università. Lì conobbi la mia futura moglie, ci sposammo dopo le nostre lauree. Nel ’64 sono divenuto assistente di Patologia Medica, nell’ ’86 ho ottenuto la Cattedra di Terapia Medica e in seguito quella di Gastroenterologia all’Università di Parma. In Ungheria non tornai fino all’ ’89: ero rimasto un ricercato. I miei compagni della Guardia Nazionale furono tutti arrestati, alcuni condannati a morte, un altro all’ergastolo.

Piero Calamandrei affermò che «la libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare». Per gli ungheresi ci vollero altri 33 anni per respirare la libertà. Mi auguro che gli eredi di quella Rivoluzione sappiano valorizzare il sacrificio degli eroi del 1956.

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