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Il vero titolo delle «Prose»

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Libri

Il vero titolo delle «Prose»

  • –Lorenzo Tomasin

Ci sono novità sul Bembo. Novità che dimostrano come anche sugli autori più grandi e sulle opere più importanti della storia letteraria possono sedimentarsi distrazioni ed equivoci che basta un po’ d’attenzione e qualche attenta verifica per svelare, ma che resistono a volte per secoli, e tanto più sorprendentemente quando si trovano in luoghi espostissimi: addirittura nei titoli! È così che lo storico della lingua italiana Giuseppe Patota si è accorto – e ne darà conto in un articolo in uscita in una rivista scientifica – che Pietro Bembo, autore di quella che è riconosciuta di fatto come la prima grammatica di riferimento della lingua letteraria italiana, stampata nel 1525, non intitolò né indicò mai la sua opera con la formula con cui essa è passata alla storia, cioè Prose della volgar lingua. Possibile? Sì, possibile, visto che da raffinato umanista e da cultore dell’ancor giovane arte della stampa, il cardinal Bembo non volle per la prima edizione della sua opera un frontespizio di tipo moderno, e chiese all’editore un tipo di confezione di quelle che andavan di moda soprattutto nel Quattrocento, agli esordi dell’età delle tipografie, sul modello di certi manoscritti antichi. Insomma, la prima edizione delle Prose non inizia sul recto della prima carta, ma sul suo verso (a pagina 2, diremmo oggi) con quello che non è un vero titolo, ma una specie di lunga formula (wertmülleriana, direbbero gli amanti del cinema) che sembra più simile a un’arcaica «bandella»: «Prose di messer Pietro Bembo nelle quali si ragiona della volgar lingua scritte al cardinale de’ Medici che poi è stato creato a sommo pontefice e detto papa Clemente VII divise in tre libri». Impronunciabile, certo, senza rifiatare almeno un paio di volte. Ma gradito al cardinale, che curò altre edizioni della sua opera, correggendola e modificandola in più punti, ma senza mai dare istruzioni sul cambio di quello smisurato pseudo-titolo.

Ed è qui che arriva la seconda novità: giusto del lavoro di minuziosa revisione dell’opera, finora testimoniato solo dal suo riflesso nelle successive edizioni, abbiamo ora un importante testimone diretto, cioè una copia della prima edizione in cui un équipe di paleografi e filologi (Fabio Bertolo, Marco Cursi e Carlo Pulsoni) ha individuato con certezza la mano del cardinale autore di un gran numero di ritocchi a penna che non solo correggono refusi e sviste, ma introducono anche modifiche di sostanza e in alcuni casi consistono in annotazioni e promemoria rivolti dal Bembo a sé stesso. Ne risulta un’incursione nel laboratorio di un classico che ha segnato le sorti della lingua letteraria italiana (e per molti versi anche di quella europea tra cinque e seicento), consacrando Petrarca come modello per la lirica e Boccaccio come modello per la prosa letteraria. Dopo averne annunciato un paio d’anni fa il ritrovamento, i tre studiosi stanno per pubblicare un’edizione completa e commentata delle postille del cardinale.

Ma torniamo alla questione del titolo. Nelle molte lettere in cui parla della sua opera, Bembo la designa in vari modi, a volte col semplice Prose, a volte come Composizion mia, o Dialogo… ma ecco: Prose della volgar lingua, mai. Chi fu dunque a dare all’opera un titolo genialmente scorciato ed efficace, che tutti poi credettero essere quello originale? Patota accerta anche questo: fu il fiorentino Benedetto Varchi, artefice della riconciliazione culturale tra l’establishment mediceo e le idee del veneziano Bembo (che indicava come modello linguistico non i toscani contemporanei, ma i grandi autori fiorentini del Trecento, dichiarando come uno svantaggio il nascer a Firenze per chi voglia possedere la buona lingua). Curatore di un’edizione postuma delle Prose e maestro in fatto di diplomazia e di quella che oggi diremmo promozione culturale, Varchi introdusse il titolo che poi tutti usarono, e lo legittimò con una specie di piccola bugia: dichiarando cioè, nell’introdurre il volume, che Bembo stesso l’aveva intitolato così. Ciò che tutte le testimonianze passate al vaglio da Patota smentiscono. Poco male: le Prose (così bisognerebbe indicarle, al massimo) sono in buona compagnia di tanti altri capolavori, dalla Divina Commedia che Dante non disse mai Divina al Decàmeron che Boccaccio leggeva con l’accento sull’ultima sillaba, Decamerón, fino ai Rerum vulgarium fragmenta di Petrarca, che tutti chiamiamo Canzoniere… opere in cui il pubblico ha fatto, e legittimato lungo i secoli, una piccola violenza agli autori modificando il titolo stesso dei loro capolavori. L’importante è esserne consapevoli: anche questo, in fondo, è un sintomo del loro successo. E della nostra distrazione.

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Giuseppe Patota, Il vero titolo delle Prose del Bembo , il Mulino, in uscita
a dicembre 2016; Fabio M. Bertolo, Marco Cursi, Carlo Pulsoni, Bembo ritrovato: il postillato autografo delle Prose , Viella, in uscita entro l’anno