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Il teatro nel computer

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Il teatro nel computer

Nuova formula. Le postazioni di «Perhaps all the dragons».
Nuova formula. Le postazioni di «Perhaps all the dragons».

La vera star di “Vie”, come di tanti altri festival – in Italia si era già visto a Dro, nel 2014 – è stato il gruppo belga dei Berlin con Perhaps all the dragons, una videoinstallazione che diverte e coinvolge come fosse interpretata da attori in carne e ossa. La sua ideazione unisce l’ingegno scenografico alla tecnologia digitale: gli spettatori siedono dentro un’elegante struttura lignea, formata da un grande tavolo ovale con trenta postazioni disposte in corrispondenza di altrettanti monitor. Su di essi appaiono le immagini di uomini e donne che espongono storie più o meno bizzarre: c’è una ragazza giapponese che da anni non esce dalla sua camera, c’è un esperto polacco di body language, un capo-claque del Bolshoi che illustra trucchi e manovre per strappare gli applausi, e un pediatra israeliano che di giorno salva bambini palestinesi e di notte pilota elicotteri con cui li attacca, ben sapendo di innescare catene di vendette di cui faranno le spese altri bambini di entrambe le parti.

Ventinove di queste testimonianze sono vere anche se sembrano false – garantiscono gli autori – mentre una sola è falsa pur sembrando probabilmente vera. I personaggi risultano verosimili, ma sono attori: e proprio in questa dialettica tra realtà e finzione sta una delle chiavi di volta del progetto. Alla fine dei loro interventi ci si sposta per sentire un’altra storia: si compone così una drammaturgia collettiva, una finestra sull’umanità di oggi con le sue debolezze buffe o inquietanti. Ogni spettatore segue un percorso stabilito, in una sorta di schema combinatorio. Le trovate migliori sono le interazioni fra le varie figure, che comunicano fra loro da uno schermo all’altro o reagiscono a qualcosa di imprevisto che avviene dal lato opposto del tavolo.

Un’altra star del festival è stato l’attore lituano Juozas Budraitis, protagonista de L’ultimo nastro di Krapp diretto da Oskaras Korsunovas. Lo straordinario testo di Beckett è stato affrontato nei modi più diversi, ma riesce ancora a suggerire sorprendenti prospettive: Korsunovas accentua la decadenza fisica del personaggio, prende alla lettera le battute sui suoi «vecchi stracci» e su quel luogo che lui chiama «tana», ingombro di cartacce e col lungo nastro di un registratore srotolato sul pavimento. Seduto in sala mentre il pubblico sta ancora entrando, Budraitis scatarra, sghignazza scompostamente. Indossa un logoro pastrano nero, ha la barba e i capelli bianchi. Estrae le banane da una cassetta, le lecca, lancia le bucce sugli spettatori. Ascoltando la propria voce dal passato, ride sguaiatamente per il proposito di avere «una vita sessuale meno impegnativa», piagnucola sulla madre morente, si porta spesso la mano al petto, come colto da un attacco di cuore. E l’attacco, a quanto pare, arriva davvero, al ricordo della gita in barca con l’amata. Forse eccede, perché Beckett ha toni disperati, ma mai patetici. E’ comunque una prova attorale impressionante.

Meno sforzo di immedesimazione è richiesto alle interpreti di Raffiche, la nuova creazione che apre la “personale” con cui i Motus festeggiano i 25 anni di attività. Nel 2002 il gruppo aveva allestito Splendid’s – una pièce di Genet in cui sette rapinatori sono circondati dalla polizia in una stanza d’albergo – nel Grand Hotel di Rimini. Ora ripete l’esperienza all’Hotel Carlton di Bologna, facendone un precario esercizio di riscrittura – gli eredi non hanno concesso i diritti - sull’identità di genere, con tutti i ruoli maschili affidati a ragazze. Fra mitra di plastica e improbabili balletti, prevale la cifra dell’ironia, di un’ambigua spigliatezza.

C’era attesa per il Belarus Free Theatre, la compagnia di oppositori bielorussi che lavora praticamente in esilio. Questa condizione garantisce loro un bonus di applausi a prescindere da ciò che fanno. Ma Burning doors, in cui appare alla ribalta anche Maria Alyokhina, una delle Pussy Riot incarcerate per un’azione di protesta in una chiesa di Mosca, si è rivelato molto più che deludente. Proprio a “Vie”, sette anni fa, i Belarus si erano fatti conoscere come una realtà naïf ma in qualche modo sincera, che narrava in forma semplice e diretta il rapimento di un dissidente. Burning doors è invece un pasticcio pretenzioso in cui annunciano di voler documentare l’inferno carcerario russo, ma poi ne fanno una specie di musical con maldestre coreografie, finte torture, citazioni a casaccio e una quantità di inutili azioni simboliche che non documentano proprio nulla. Dovrebbero imparare da Carullo e Minasi come evocare con arguta delicatezza il disagio e la sofferenza. Il loro Delirio bizzarro, nato a contatto con un Centro di Salute Mentale, mostra due figurette, un paziente in preda alle proprie visioni maniacali e un’assistente determinata, un po’ carrierista, che a poco a poco sembrano scambiarsi i ruoli. È una scheggia di vita fragile, tenue, ma che va caricandosi via via di una verità stranamente personale.

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