
Dopo aver vissuto a Milano qualche anno, nell’ottobre del 1966 decisi di ritornare a Firenze dove avevo fatto i miei studi universitari e mi trovavo piuttosto a mio agio: vi avevo imparato l’italiano e avevo cambiato modo di considerare la vita. Firenze era dunque casa, biblioteca e centro dei miei affetti. Era ormai ottobre avanzato e il tempo non si presentava ameno. A fine mese pioveva di continuo e con i primi giorni di novembre divenne un diluvio. Non mi ero ancora instaurato nel mio quartierino – quattro stanzine molto modeste in fondo a via della Chiesa, nel centro di San Frediano. E così finché l’elettricista e l’idraulico sistemavano luce ed acqua ero ospite in un appartamento di amici a mezza Costa San Giorgio, una stradina che saliva dietro la chiesa di S. Felicita al Forte del Belvedere, silenziosa e calma, quasi medievale. Da casa si vedeva la cupola del Duomo che penetrava come la grossa mammella di una balia da ogni finestra. Pioveva, pioveva sempre ma quel suono uniforme finiva, angosciante tanto era insistente, per farti addormentare di colpo. Quando mi svegliai erano le nove di un 4 novembre, tristanzuolo e senza luce. Pioveva ancora. Avevo freddo e mi alzai per ravvivare il fuoco che non potei accendere; uscii di casa e scesi le scalette che portavano sulla Costa con l’idea di andare a far colazione da Maioli in via Gucciardini, vicino a Pitti. Non potei passare: quando mi affacciai dalla scalinata che tagliava la Costa immettendo sul Lungarno rimasi annichilito. Il fiume aveva traboccato gli argini almeno di un paio di metri e cominciava a portare con sé ogni tipo di avanzo – tronchi d’alberi sradicati, biciclette, automobili, travi che lambivano con gran fracasso i contrafforti del Ponte Vecchio per dopo quasi sempre sormontarli. Verso le dieci una piccola folla attonita e silenziosa si limitava a qualche monosillabo di sorpresa. L’acqua aumentava ed era chiaro che sarebbe stato impossibile attraversare il fiume e forse poco prudente scendere verso Pitti. Rimasi ancora in cima alle scale, forse per qualche ora, fradicio di pioggia ma ipnotizzato dall’immenso serpente d’acqua bigia che correva sempre più veloce, sempre più grande e fragoroso. Pochi parlavano ma qualcuno con le radioline cominciò a farci capire l’immenso disastro che avevamo sotto gli occhi. Me ne tornai a casa, pioveva sempre e si fece subito sera, buio alle quattro, silenzio senza radio, senza telefono e senza luce.
Non ricordo come dormii, ero solo e quasi a digiuno. La mattina dopo era più triste ancora ma le acque cominciavano a ritirarsi dalle mie parti e trovai qualcosa da mangiare. Quel giorno, o lunedì 7 o martedì, arrivarono grandi camion con scorte alimentari, pane, acqua, the e caffè caldo e punture per tutti. Nessuno urlava e mi sembra che fossero tutti gentili. Credo che il lunedì traversai Ponte Vecchio e mi avviai verso il centro: spaventoso, fango ovunque e un terribile odore di marcio e di benzina, vetri rotti, bottiglie, migliaia di libri disfatti nell’acqua sudicia, fango. Arrivai fino al Duomo dove vidi le porte del Battistero divelte e alcune delle formelle dorate, a terra, custodite dai soldati. Mi spuntarono le lacrime ma come tutti rimasi composto, increduli di quel che vedevamo. Mi dissero che la notte fra il 4 e il 5 la forza dell’acqua aveva spalancato i battenti delle porte. Non si poteva ancora andare fino a Santa Croce perché l’acqua era arrivata a diversi metri d’altezza e tutto era ancor peggio. Pare che il Crocifisso del Cimabue, che avevo visto qualche giorno prima quando fu reso dagli Uffizi al Museo della Chiesa a cui apparteneva, era forse distrutto. Così non fu, non del tutto, ma la pittura si era in buona parte staccata dal legno.
Volevo fare qualcosa ma ero sconvolto – amavo Firenze che dopo i fatti di Cuba, qualche anno prima, era la mia casa. Mi avviai per tornare in Oltrarno, attraversando gli Uffizi: anche qui un disastro. Sulla porta dell’Archivio di Stato riconobbi il direttore, un uomo molto affabile che avevo conosciuto ai Tatti; mi riconobbe e mi chiamò: «Qui, lei lo sa, quasi tutto è sotto acqua». L’Archivio di Stato era lì da sempre, a pian terreno, sotto la Galleria. Non c’ero mai stato: allora non tutti credevano ai documenti, poco il mio professore Roberto Longhi e meno ancora Berenson, morto qualche anno prima, o i crociani della pura visibilità. Ma io sapevo di sbagliare e comunque chiesi al Direttore cosa potevo fare per aiutarlo: «Trovi degli amici, aiutateci a levare le carte dall’acqua». Lo feci: mi misi all’angolo di via della Ninna e fermai i giovani che sembravano ben disposti. Non tutti accettarono ma in un paio d’ore eravamo più di una ventina e per un mese intero riempimmo le logge terrene degli Uffizi della storia vera di quella città che tutti amiamo ed ebbi, come sempre accade in Italia, molto più di quello che diedi. Si trattò di un diploma che consegnò ad ognuno di noi un funzionario del Ministero in una cerimonia commovente –lo conservo ancora. Il Direttore mi disse invece: «Perché non l’ho mai vista qui in Archivio? Potrebbe imparare anche in questo posto molte cose, l’aiuterò».
Ci andai qualche mese dopo quando tutto lentamente incominciò a tornare al suo posto. I documenti che in modo un po’casuale trascrissi allora li ho quasi tutti utilizzati lungo gli anni. L’ultimo mi è servito poco tempo fa: descrive per filo e per segno un tavolo che si trovava nella stanza in cui morì nel 1692 la Granduchessa Vittoria della Rovere, ultima della sua famiglia che portò a Firenze impareggiabili meraviglie, come i ritratti dei suoi antenati dipinti da Piero della Francesca, la Venere di Urbino di Tiziano o questo tavolo di ebano e di avorio di cui si era persa memoria. Ma imparai molto di più allora: sappiamo solo una parte della verità, una piccolissima parte, e la cosa che sappiamo veramente è quanto poco ci è noto. Quel che Firenze insegnò a tutti allora, cinquanta anni fa, è il senso della dignità e come nulla sia veramente perso se si ha la forza e la fede di non lamentarsi e di rimettersi a lavorare da capo. La natura sa distruggere infinite cose ma tutte possono essere riparate dagli uomini. Purtroppo è l’uomo ad essere in grado di annientare per sempre ciò che altri uomini hanno fatto prima di quelli che ignorano la propria missione. Le alluvioni distruggono, i fiorentini inventano e, se vogliono, salvano.
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