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Bellezza e sintesi del latino

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ivano dionigi

Bellezza e sintesi del latino

Nella pagina di Scienza e Filosofia di questo Supplemento domenicale il 2 ottobre scorso, in un articolo vertiginoso dello scienziato Mario Rasetti ci si raccontava come in un anno si producono nel mondo un numero di byte pari a un miliardo di volte quanti ne contiene la Biblioteca del Congresso di Washington (figuriamoci quella tolemaica di Alessandria!). Mentre in una colonnina a lato Roger Scruton si dichiarava filosofo conservatore e invitava a riflettere sulle eredità preziose del passato, le cui tracce ci circondano ancora ma sempre più fragilmente. Riflettere e rimediare al turbinio odierno con la calma che esige e ci procura anche un semplice bicchiere di buon vino, dinnanzi al quale ti siedi, fermi i tuoi affari e finalmente mediti.

Ed ecco un libro di Ivano Dionigi col titolo Il presente non basta, non basta con la sua unica dimensione, quella della simultaneità, della sincronia, del presente appunto.

A fronte e a rimedio possibile, ciò che recita il sottotitolo: La lezione del latino Dionigi, che di latino ha un’esperienza di studioso e di didatta straordinaria, spiega quali sono le peculiarità non scadute di quella lingua e tutto ciò che essa esprime e nelle sue strutture raffigura e di cui ci mette a parte: essenzialmente il primato della parola, la centralità del tempo, la nobiltà della politica.

Il primato della parola: e quando mai la parola, dirà il solito grillo parlante, primeggiò più che nell’epoca dei cinguettii telefonici? Appunto, risponde il professor Dionigi: ma questo è solo un chiasso, la chiacchiera di un pensiero anoressico ad alto volume, che occorre abbassare. E come, meglio che guardando al modello di quella lingua, originariamente non di poeti e di filosofi come il greco stesso, ma di agricoltori e di soldati e dunque caratterizzata dalla potenza rispetto alla grazia, dalla sintesi rispetto ai meandri. Si può estendere a tutto il latino quanto Nietzsche diceva di Orazio: che cioè quel poeta raggiunge col minimum dei segni il maximum della loro energia.

Vi regnano infatti l’assenza degli articoli, la frequenza dei composti eloquenti e dei sinonimi distinguenti: loquor, parlo, eloquor, parlo bene, facio, faccio, perficio, compio...; contrastanti con la vaghezza e imprecisione linguistica odierna, con i suoi vocaboli ibridi e multiformi, tanto più inefficaci quanto più indefiniti, mistificati e mistificanti. Si pensi – esemplifica Dionigi – ai tanti neologismi: “legge di mercato” per sfruttamento, “flessibilità” per disoccupazione, “guerra preventiva” per aggressione, ecc.

L’opposto è, come voleva il vecchio Catone, l’attenersi esattamente ai fatti: fare e poi dire; fare, e le parole dopo seguiranno. Se i Greci, per bocca di Aristotele, attribuivano il primato alla conoscenza, questi altri l’attribuiscono all’azione.

Anche la Repubblica è cosa concreta, la “cosa del popolo”. Per cui la politica persegue inequivocabilmente il primato del pubblico sul privato, della collettività sul particolare e dell’azione dello Stato sulla vita individuale. E in cielo, assicura Scipione Africano nel Sogno di Cicerone, godranno di un posto privilegiato tutti coloro che avranno preservato e ingrandito la patria.

Con questi pesanti bagagli sulle spalle la lingua di Roma e la sua letteratura hanno attraversato tutta la storia europea, incontrando ostacoli e abolendo steccati. Conobbero il sermo vulgaris e le pressioni del cristianesimo, il recinto delle corti e delle abbazie e finalmente la restaurazione umanistica. E così il latino fu usato non solo da letterati e da topi di biblioteche, ma da medici, naturalisti, scienziati. E animò dibattiti che superavano la semplice questione linguistica, quale la grande querelle des anciens et des modernes di Sei e Settecento, fra paludati e ribelli, fra chi (Perrault ecc.) compativa gli antichi di essere arrivati troppo presto e di non avere quindi le finezze letterarie dei moderni come non ne avevano le buone maniere; e chi (Madame Dacier ecc.) vedeva proprio in quell’antichità il gusto espresso, coltivato e conservato nella sua perfezione a fronte della corruzione del gusto dei moderni.

E ora? La domanda si ripropone alla fine di questo percorso: ora, quando la dimensione invadente è quella del presente, e il passato un fardello da scaricare. Dionigi richiama in conclusione i valori di quella lingua di ieri, e li raffronta con la sua odierna rivale, che si camuffa ma non contiene le qualità insite nelle origini e i valori procurati dalla storia. Essa, la rivale anglosassone, ne può veicolare, ma di per sé non ne contiene, o al confronto assai poche.

A campione ed esemplare di tutto ciò, della latinità e del latino, Dionigi ci ripropone il suo autore prediletto: Seneca, maestro della brevità espressiva nelle frasi aguzze, où l’on épargne les mots come direbbe Michaux; con la massima concentrazione di pensiero e una formidabile incisività che sgomentano l’animo e incidono la verità nella mente. Implacabili, affascinanti, come riconosceva Quintiliano, esse costringono per la forma non meno che per i contenuti a cedere e ad arrendersi.

Seneca, ribadisce Dionigi, fu un grande rivoluzionario idiomatico, sospingendo il latino verso l’astratto e dall’esteriore verso l’interiore, dalla lettera alla metafora.

Anche per questo, anzi per il suo ruolo di innovatore linguistico ancor più che per la sua multiforme opera di scienziato, di tragediografo, di politico, di filosofo, Dionigi lo addita come il vero classico per il terzo millennio. Quasi abbia già avvertito la necessità che quindici secoli dopo avvertì Montaigne, attento lettore di Seneca, di una nuova lingua per i moralisti.

Per tutto ciò, questa lezione si estende ben oltre il tema specifico. Più o meno sottintesa è una lezione molto più profonda e ampia e ancora più importante: sull’insufficienza delle dimensioni e delle proposte dell’oggi. E un invito sereno ed equilibrato a ripercorrere i passi della storia e ampliare così i nostri orizzonti e acquistare l’intera misura della dignità dell’uomo.

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