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I compiti della «sola» Camera

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I compiti della «sola» Camera

La riforma tocca solo marginalmente il titolo della Costituzione dedicato al Governo: gli articoli da 88 a 95 restano identici o sono semplicemente adeguati alla riforma del bicameralismo. Non vengono introdotti modelli di “premierato”, con forme di designazione diretta del primo ministro, né è rafforzata l’autorità del capo del Governo, come prevedevano molte proposte discusse dalle Camere in questi decenni.

L’Italia resta saldamente una “forma di governo parlamentare” ove, come recitano i migliori manuali, l’esecutivo è emanazione permanente dell’assemblea elettiva e deve sempre godere della fiducia della stessa. Rimangono poi inalterati i poteri del Presidente della Repubblica in ordine allo scioglimento della Camera e alla nomina dell’esecutivo.

Dunque, nulla di nuovo sotto il sole? Una lettura superficiale potrebbe indurre a ritenere che la posizione del Governo nel sistema costituzionale sia immutata e che poco cambi nei rapporti con gli altri poteri dello Stato. In realtà, le cose non stanno così: l’obbligo per il Governo di «avere la fiducia della Camera dei deputati» e non più «delle due Camere» costituisce forse l’asse portante dell’intera riforma. Solo la Camera sarà un’assemblea politica, eletta direttamente e chiamata a decidere se instaurare e mantenere il rapporto fiduciario con il Governo; solo la Camera potrà essere sciolta, mentre il Senato diventerà una assemblea permanente, ossia rinnovata in occasione dell’elezione dei singoli consigli regionali. E ancora, solo la Camera delibererà lo stato di guerra, a maggioranza assoluta e non più relativa, legifererà su materie delicate come amnistia e indulto e autorizzerà la ratifica dei trattati internazionali.

Ma vi è di più: la differenziazione del bicameralismo ha una evidente ricaduta sulla stabilità dei governi. La presenza di maggioranze divergenti nelle due Camere non è una singolarità verificatasi solo nel 2013, quando produsse effetti dirompenti nel sistema costituzionale, quali la rielezione del Presidente della Repubblica Napolitano. Essa è quasi una costante dall’inizio degli anni 90, in presenza di elettorati diversi (al Senato i più giovani non votano), partiti in costante travaglio e sistemi elettorali mai identici per le due Camere. Solo dopo due elezioni, quelle del 2001 e del 2008, Camera e Senato avevano il medesimo colore politico, mentre nelle altre quattro occasioni le maggioranze uscite dalle urne non coincidevano. E non è un caso che i due Governi Prodi, nell’ottobre ’98 e nel gennaio 2008, caddero proprio perché furono sfiduciati in una Camera, mentre erano al sicuro nell’altra. In questo senso, la riforma non introduce una nuova forma di governo, ma potrebbe porre le condizioni per un recupero di funzionalità all’interno della tradizionale forma parlamentare, specie se abbinata a una legge elettorale che favorisca la formazione di una maggioranza politica.

Un tentativo di recupero di “normalità” si coglie anche nel rafforzamento degli strumenti di carattere ordinario a disposizione dell’esecutivo per accelerare l’iter legislativo e nella correlata limitazione degli istituti “eccezionali”, quali il decreto-legge, il cui abuso costituisce da decenni una piaga del nostro sistema costituzionale.

Così, viene introdotta una novità che rinforza la posizione del Governo in Parlamento, il “voto a data certa”. Con esso, il Consiglio dei Ministri potrà chiedere alla Camera di concedere una corsia prioritaria per l’esame dei disegni di legge essenziali per l’attuazione del programma. La Camera potrà decidere se seguire questo procedimento e, nel caso, si pronuncerà entro un massimo di 85 giorni, approvando, modificando o rigettando la proposta.

Questo strumento dovrebbe ridurre il ricorso da parte dell’esecutivo alla questione di fiducia per ottenere in tempi rapidi l’approvazione di una legge, e dovrebbe costituire un’alternativa all’abuso dei decreti legge, per i quali si si introducono limiti severi. Essi potranno recare solo misure di immediata applicazione (altrimenti non sarebbero urgenti) e di contenuto omogeneo; non potranno disciplinare materie delicate come quella costituzionale ed elettorale. Non solo: anche il Parlamento non potrà più utilizzare il binario del procedimento di conversione come occasione per attaccare al treno in marcia verso l’approvazione ulteriori “vagoncini”, con norme estranee all’oggetto e al fine del decreto.

Insomma, né la tirannia, né l’equilibrio perfetto dei poteri; semmai un qualche passo verso quell’idea di democrazia che, parafrasando il grande primo ministro laburista Clement Attlee, significa governo fondato sulla discussione, ma che funziona soltanto se, a un certo punto, riesce a far smettere la gente di discutere.

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