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Sull’amore della vita

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Sull’amore della vita

Titanico mitografo delle peggiori derive americane Don Delillo nel 2003
Titanico mitografo delle peggiori derive americane Don Delillo nel 2003

L’ultimo romanzo di Don Delillo, il grande maestro del postmodernismo americano, è un apologo sull’amore della vita. Si intitola Zero K (tradotto da Federica Aceto per Einaudi) e parla di morte, anzi: di resurrezione.

La storia è presto detta. Un pezzo grosso della finanza, collezionista d’arte, Ross Lockhart, e la sua seconda moglie, assai più giovane, archeologa, malata terminale, Artis Martineau, si ritirano a morire in un fantasmatico centro ospedaliero, probabilmente collocato in una delle ex repubbliche sovietiche (rigurgito di un vecchio décor da guerra fredda, tipico di non poca fantascienza e di qualche film di James Bond). Morire, però, lì non significa finire. I cadaveri della facoltosa coppia, debitamente trattati e ibernati, ritorneranno al mondo (si sa che pratiche del genere stanno già prendendo piede in America, e non solo lì). Jeffrey, figlio del solo Ross, è il narratore. Visita il centro ben due volte, la prima con entrambi, la seconda con il padre e basta; ci descrive gli ambienti e i personaggi (un prete, qualche infermiere e i già morti), e si pone le domande che occorre porsi: e dopo come sarà? E saremo ancora noi? E se non muore più nessuno veramente, della terra che avverrà? Tutto questo è escatologia?

La trama è semplice e alquanto lineare, pur movimentata da sapienti cesure, molte omissioni, e perfino uno straniante poème en prose, composto, si suppone, dalla coscienza di Artis, che l’indomani sarà solo carne per la criogenia. I personaggi sono schizzi di biografie. È probabile che non servisse fornire di più al lettore: sulla soglia della morte qualunque pienezza si assottiglia, anche la più ricca delle esistenze si riduce a cartilagine. L’unico ad avere un po’ più di “passato” è chi resta nel presente, Jeffrey. Lui ricorda la madre, riporta momenti di una storia d’amore, e qualcos’altro. Non molto neanche nel suo caso, per la verità. Nemmeno i rapporti marito-moglie o padre-figlio sono soggetti ad analisi o a interpretazioni.

La forza del racconto è nell’intrecciarsi di certi motivi chiave, nel ricorrere delle metafore, nella messa in stile delle situazioni. Il gelo dell’ibernazione è reso in un diffuso candore, in una secchezza di sintassi e di immagini. Gran parte degli eventi sono futili, minimi: la corsa di una goccia d’acqua durante la doccia; una finta zoppia (forse tolta allo Zeno di Svevo). Il Delillo maestro, il titanico mitografo di tutte le peggiori derive americane, esulta nel dettaglio, nell’orchestrazione delle onde narrative, brevi come quelle di una risacca, e ancora di più nell’altra parte del tappeto, dietro le figure, là dove stanno i nodi. Se posso ricorrere a un’altra analogia, qui trionfa l’orefice, non lo scultore. Il lettore dovrà pertanto impegnarsi a godersi la luce raccogliendo ogni minimo barbaglio del metallo, non trascurando nessun lampo. Quante volte, per esempio, compare il sostantivo “name”, “nome”! Non le ho contate, ma sono sufficienti a formare un tema importante, uno “studio”. Nel discorso sulla reificazione delle membra il nome si stacca, esattamente come i peli e gli organi interni, o il cervello, o la testa intera, e cessa di essere marca di identità. Ecco: l’identità. Questa preme a Delillo – non solo qui – più forse della stessa storiellina che ha imbastito per intrattenere il lettore. Ho detto che il libro è un apologo. Forse lo si potrebbe chiamare anche saggio travestito, con la sua serie di questioni.

Un’altra: il corpo. Che cos’è un corpo? Che cos’è il corpo americano, questa forma distrutta, ricostruita, protetta, lesa, annientata, eternizzata? Le pagine migliori raccontano un museo di corpi-corpi: non più persone, ma – nella sospensione glaciale – nemmeno carcasse. Invece: manichini, fantocci calligrafici, opere d’arte. Quelle teche-baccelli in cui stanno i morti formano un vero e proprio museo di cose belle. L’autore estetizza forse un pochino; un pochino sfonda nel macabro e nel necrofilo. D’altronde, tanto biancore tecnologico, tanto algido incantamento non potevano non essere tentazioni forti per l’eccellente stilista del cascame quale Delillo è diventato nel corso di una lunga carriera, grazie a uno sguardo e a un mestiere che pochi altri hanno avuto negli ultimi decenni. Nell’estetizzazione letteraria, pseudo-canoviana, però, si esprime anche un convinto amore per l’aspetto umano, un amore che di erotico, di materiale non ha nulla, bensì è ammirazione primordiale, stupore filosofico davanti alla presenza puramente fisica dell’entità uomo: all’assolutezza della potenza di vita.

I morti ripuliti e archiviati di Zero K, però, sono anche quello che sono: relitti della storia, i senza storia, la fine della storia. Lì, dunque, in questa cancellazione totale, stiamo andando tutti, criogenia o no? Di noi resterà soltanto l’involucro? E per quanto? La speranza di tenerlo da parte fino a eventuale resurrezione è l’unico progetto di futuro che il mondo attuale ci consente di fare?

Chi cerchi un libro sul senso della fine o sulla legittimità della palingenesi troverà forse solo una malinconica satira. Il messaggio è questo: meglio vivere la vita che abbiamo, la vita che stiamo già vivendo, momento per momento, nel meraviglioso spettacolo di questa forse unica luce. Non è, comunque, poco.

In Zero K, che è il diciassettesimo romanzo di Delillo, risuona ancora l’angoscia che aveva dettato il primissimo Americana, vero e proprio canto al terrore della sparizione e della dissoluzione fisica. Là il giovane protagonista filma il mondo, oltre che per amore delle immagini e per il potere che le immagini gli consentono di esercitare, anche perché il mondo non sparisca. Ma viene in mente anche un libro come The Body Artist: altro saggio sul corpo, altra prova di essenzialità verbale e narrativa. Se notiamo queste sotterranee parentele apprezzeremo ancora di più il senso del nuovo romanzo e di un’opera che sta cercando sempre più sottili espressioni per arrivare al nucleo di un’interpretazione.

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