Cultura

Cos’è il romanzo (e cosa non lo è)

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Cos’è il romanzo (e cosa non lo è)

  • –Matteo Marchesini

Gli imperi, si sa, si sfaldano proprio mentre sembrano raggiungere un’incontrastata egemonia: non avendo più confini, perdono l’identità. È quello che è successo al romanzo, che pretende di coincidere con la letteratura tout court. Ma se tutto è romanzo nulla lo è: la mancanza di attrito con l’altro da sé lo distrugge. Di questa crisi si è occupato più volte Alfonso Berardinelli, che ha osservato come il termine indichi ormai più un genere editoriale che un genere letterario. In un libro del 2011 il critico invitava perciò a non incoraggiarne la produzione; e oggi, con il Discorso sul romanzo moderno (Carocci), ci offre il complemento storico di quell’analisi, ripercorrendone la tradizione da Cervantes a Kafka, e fermandosi sulla soglia di quel XX secolo in cui l’ipertrofia teorica l’ha trasformato in uno «sterile esercizio formalistico».

Con le sue sintesi epigrammatiche, Berardinelli sa ridare un’aria di sorprendente novità a cose che credevamo di sapere e di cui invece, studiando la letteratura anziché leggerla, abbiamo sottovalutato l’importanza. Riprendendo Giacomo Debenedetti, ricorda che i veri romanzi non sono tali per ragioni di virtuosismo narratologico, ma perché attraverso un personaggio-cavia ci mostrano il mondo sotto una luce coerente, inattesa, e allargano così la nostra coscienza morale. Al loro centro sta sempre l’incontro di questa cavia con una realtà che viene scoperta ogni volta da capo insieme alla forma narrativa (altrimenti il realismo diventa stereotipo). Incontro vuole poi dire scontro: perché il genere, come insegna Lukács, nasce da un universo borghese in cui l’individuo non è più integrato in una totalità sociale, ma si dibatte dentro un cosmo privo di gerarchie fisse e certezze religiose. Quindi il romanzo mette in scena un evento dagli effetti imprevedibili, e propone «una filosofia e una saggezza che non accetta filosofie e saggezze precedenti e preordinate». È per questo che chi vuole legarlo a un apriori teorico finisce per darne una versione artificiale, da serra: come Manzoni e Goethe, che sottomettono le loro trame a Provvidenza e Natura, riducendole a teoremi pedagogici o metafisici. «Dove c’è il sacro, non c’è posto per il romanzo», conclude Berardinelli. Solo in un mondo abbandonato dagli dèi può determinarsi la frattura tra individuo e società (tra teorie e vita, tra fatti e valori) che ne costituisce il tema dominante. Già nel Don Chisciotte, la frattura appare netta: l’ideale eroico è incompatibile con una realtà prosaica e comica. Ma ciò non significa che la realtà ha ragione e il cavaliere torto: la sua follia, infatti, conserva una tensione utopica senza la quale l’esistenza perde senso. Un secolo più tardi, Defoe rovescia la situazione: il suo Robinson è un uomo medio, mentre è il contesto in cui agisce a essere eccezionale. Ma sia il fantasioso Chisciotte che il pratico Crusoe hanno in comune un’assoluta mancanza di psicologia: sono tutti nelle loro azioni. L’indagine dell’interiorità, spiega Berardinelli, affiora dalle settecentesche Confessioni di Rousseau, che nel secolo successivo forniscono argomenti ai romanzieri impegnati a rivendicare la «vita vera» contro una borghesia non più liberatrice ma soffocatrice dell’io.

Nell’800, infatti, la nuova società opprime ormai l’eroe romanzesco, assumendo l’aspetto della giungla civile descritta da Balzac e Dickens. È il tempo dei protagonisti intellettuali che dalla piccola borghesia di provincia arrivano in città affamati di successo. Ma questa fame è ambigua. Il loro capostipite, il Sorel del Rosso e il nero, è troppo esaltato da se stesso per fare bene i suoi calcoli. La sua ambizione rimane astratta, perché in fondo disprezza il mondo da cui esige riconoscimenti; tuttavia questo mondo ne ha plasmato precocemente i desideri, e quindi non ha niente da opporgli se non un fiero narcisismo. I giovani come Julien coltivano le fantasie più bovaristiche: si sognano Napoleoni, e soccombono davanti a una realtà che rivela l’irrealtà dell’ideale. Ma anche i margini dell’illusione si assottigliano via via lungo il secolo: finché in Flaubert gli ex ragazzi sono condannati a un’azione puramente velleitaria o a una passività completa. Allora, quando nello scontro tra personaggio e ambiente i giochi sono fatti, il romanzo muore, e dall’Educazione sentimentale si torna alla satira dei caratteri, a Bouvard e Pécuchet.

Questo però vale per l’Europa postrivoluzionaria. In Russia, dove la rivoluzione è ancora una speranza, nascono intanto i febbrili romanzi drammatici di Dostoevskij e quelli epici di Tolstoj, libri che inglobano davvero tutto (filosofie, autoanalisi, controstorie di un’epoca) e che pongono con la più urgente serietà la domanda sul “come vivere”. Il canone, di lì in poi, si ridefinisce su di loro. Ma siamo ormai a un passo dal Novecento e dalla crisi: pochi anni, e Joyce dissolve dall’interno il naturalismo, mentre Proust e Kafka, «figli malati (…) oscillanti fra tutto e nulla», cercano le leggi di un universo e di un io pulviscolari, imperscrutabili, minacciosamente privi di una identità a misura umana. Raccogliere la loro eredità sembra impossibile. Perciò Berardinelli conclude su un’opera meno paralizzante e totalizzante, quella di Svevo. Nella Coscienza di Zeno l’escamotage dell’autobiografia clinica, nutrita da una divagante riflessività di sapore settecentesco, consente di ospitare i materiali più eterogenei con naturalezza. Questo scrittore che evoca la psicoanalisi per irriderla è un Molière delle manie mo derne, abbastanza duttile da garantire la continuità della tradizione romanzesca. Non a caso nel Novecento già postmoderno molti autori (da Calvino a Grass a Kundera) decentreranno la narrazione “pura” mostrandone le impalcature saggistiche, e riprendendo forme premoderne a metà strada tra le digressioni di Sterne e il conte philosophique di Diderot. Il romanzo “classico” funziona infatti solo finché, malgrado la scissione tra io e mondo, si crede a una loro costitutiva somiglianza, cioè al fatto che una vicenda individuale può simboleggiare quella di una società intera. Ma nel Novecento l’individuo si riscopre monade, e sospetta che nessuna storia sia più emblematica di un’altra: tutte sembrano equivalenti, fungibili. Il rapporto del singolo coi destini generali non appare più solo imprevisto ma indecifrabile, dovuto a un caso beffardo o a un fato tragico ma insensato che schiaccia l’uomo (e il romanzo) sotto un’alienante minaccia metafisica. Forse per questo alcuni dei migliori romanzi degli ultimi decenni raccontano la sproporzione tra un evento in apparenza trascurabile, o un gesto seminvolontario, e le conseguenze mostruose che provoca: si pensi allo Scherzo di Kundera, o a Espiazione di McEwan e a Vergogna di Coetzee. Altri libri eludono i tratti più usurati del genere travestendolo da cronaca, da biografia o trattato. In scrittori come Bellow, Sebald e Carrère è riemerso così, su un piano di sofisticato illusionismo culturale, lo stratagemma delle origini che consiste nel truccare il romanzo da “vita di”. Quanto ai trattati, mezzo secolo fa Perec inquadrava una società affluente ormai non più narrabile ma solo descrivibile, nella sua monolitica insignificanza, con il resoconto “etologico” di Le cose, oggi echeggiato più ingenuamente dagli Anni della Ernaux. Queste tattiche di aggiramento dànno comunque risultati più interessanti degli enormi affreschi zoliani in cui Storia e individuo sembrano ormai attaccati a forza con lo scotch, o dei libri in cui si giustifica il romanzo mascherandolo da reportage e si giustifica l’inattendibilità del reportage chiamandolo romanzo. Per non parlare di chi continua a scrivere «La marchesa uscì alle cinque» - magari nella variante sensazionalista «Il narcotrafficante uscì alle cinque» - riproponendo in chiave televisiva una versione stereotipata del naturalismo ottocentesco. Che è poi il genere editoriale giustamente condannato da Berardinelli.

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Alfonso Berardinelli, Discorso
sul romanzo moderno. Da Cervantes
al Novecento , Carocci, Roma,
pagg. 124, € 13