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Nozze di noia senza fiato

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MILANO

Nozze di noia senza fiato

Macchiettistiche. «Le nozze di Figaro»
Macchiettistiche. «Le nozze di Figaro»

Troppi errori nella nuova produzione di Nozze di Figaro alla Scala: di regia musicale e di regia teatrale. È grave che avvengano proprio sul titolo che rese Milano un modello - grazie alla sinergia culturale di Muti e Strehler - per una autentica conoscenza di Mozart, liberato da glassa, finzioni e moine. Le ripristina tutte il trentenne Frederic Wake-Walker (ignoto, unica notizia sul programma di sala tale “progetto Mica Mica”) tornando indietro ai cachinni e allo sciocchezzaio da avanspettacolo: a Figaro che salta e rompe la sedia, al Conte che dimentica la battuta a Susanna e il suggeritore gli gracchia «Io ti vo far felice».

Le Nozze non sono una farsa. Nemmeno il ribaltamento di prospettiva dell’ultimo atto rende giustizia dell’unico pensiero del regista, che sembra volerci dire che per tre atti tutto è stato finzione, mentre ora siamo al momento della verità. Dunque le quinte a incastro scompaiono (scene e costumi di Antony McDonald mostrano bella mano) e al posto del previsto giardino il palcoscenico viene ingombrato di tante sedie da bar: le segretarie tuttofare, inventate chissà perché e infilate ovunque, tediose per tutta la produzione, ora in marcia sul “Farfallone amoroso” ora con gesti da imbianchini nella stanza del Conte, stanno in camicia da notte. Via i tacchi e gli chignon a cupola, si offrono immobili, in gesto di resa. Come a dire che le donne non sono così, come le sta descrivendo Figaro («Aprite un po’ quegli occhi») ai maschi in sala.

Il messaggio resta però oscuro. Gli errori invece evidenti. Figaro, ad esempio, non deve buttarsi dal balcone della Contessa (come fa, come se quella fosse l’uscita abituale dalla stanza), perché distrugge il gesto folle poi di Cherubino, sul crescendo di spavento di Susanna. Banalmente questo vuol dire non aver letto né il libretto né la musica. Lo stesso vale per la Canzonetta sull’Aria, esercizio di dettatura tra complicità e malinconia, con la punteggiatura in partitura obbligatoriamente da restituire: qui la Contessa e Susanna stanno sedute fianco a fianco, ridacchiando, muovendo a caso le mani (per aria). E così anche la magia stregata del Fandango scompare, se in scena domina una baraonda da recita scolastica, col Conte che si punge con la spilla mentre sta a quattro zampe sotto un tavolo.

Ucciso teatralmente, Mozart non può essere ben cantato. Chi delude di più è Diana Damrau, inspiegabilmente corta di fiati e sbiancata. Forse non è suo il ruolo della Contessa. Così come il Figaro di Markus Werba non compensa con le capriole il timbro sottile. Chi tuona, senza motivo, è il Basilio di Kresimir Spicer. La Susanna di Golda Schultz non sa quel che dice e forse nemmeno il Conte di Carlos Álvarez, perché i loro dialoghi sono solo mossette. Marianne Crebassa ha il “fisique” da Cherubino, ma nemmeno per lei Franz Welser-Möst scioglie la concertazione piatta, di pacata routine.

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