Cultura

Umana commedia di Topi e Paperi

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I fumetti della domenica del sole. Intervista a Tito Faraci

Umana commedia di Topi e Paperi

Da sempre innamorato del racconto, in tutte le sue forme. Tito Faraci, nome d’arte di Luca Faraci, 51 anni, milanese, è romanziere, fumettista, musicista, paroliere. Ma è probabilmente il fumetto popolare a consentirgli la migliore forma di scrittura per le storie che ama raccontare. Tito scrive testi per Topolino, Tex, Dylan Dog, Diabolik e per i Supereroi della tradizione americana. Ha raccontato la sua vita con Topolino e il mestiere di sceneggiatore Disney nel libro “Mickey, Uomini e Topo” in uscita per Add Editore. “C’è qualcuno che sa leggere”, l’invito alla lettura che la Domenica del Sole 24 Ore rivolge ai più piccoli, questa settimana propone ai lettori più giovani di dare un’occhiata al “dietro le quinte” di una storia a fumetti. Inventare una storia di Topolino, riempire di testo le nuvolette lasciate volutamente in bianco permette di capire che dietro la matita del disegnatore, dietro i colori, gli “splash!”, gli “uack!” e gli “ahr, ahr!” c’è la penna, rigorosa, precisa, dello sceneggiatore. Un lavoro di regìa artigianale, attento e metodico, che avrà come risultato finale una storia di Paperi e Topi piacevole e sorprendente.

Immaginare e scrivere i fumetti di una striscia di Topolino. È così che si impara il mestiere di sceneggiatore?

Il gioco proposto da “C’è qualcuno che sa leggere” del Sole aiuta a intuire che in realtà, perché tutto nella storia funzioni, non si deve partire dal disegno, ma dalla scrittura. È un gioco, quello di riempire le nuvolette in base a quanto suggerito dalle immagini, che fa un favore a noi autori, perché porta in luce il lavoro invisibile dello sceneggiatore. Nel mondo del fumetto c’è infatti questa “seconda metà del cielo”, alla quale appartengo anche io, che svolge un ruolo di primo piano. Non a caso, molti personaggi del fumetto italiano sono stati inventati dagli sceneggiatori.

Come spieghi il successo mondiale ottenuto dagli autori e dai disegnatori italiani dei personaggi Disney?

Il fumetto Disney italiano rappresenta almeno i tre quarti della produzione Disney nel mondo. Io stesso ho pubblicato in 20 Paesi diversi. Alla base ci sono sicuramente alcune circostanze economiche favorevoli. Un editore come Mondadori , già negli anni 40, aveva preso la licenza per pubblicare i fumetti Disney in Italia. Tutto questo si è innestato su un terreno fertile: l’Italia è un Paese abbastanza grande, con tanti lettori. È successo quindi che Topolino sia diventato un grande investimento, che ha permesso di creare opportunità e lavoro per autori, disegnatori e di attirare nuovi lettori. Ma determinante, a mio avviso, è stata una certa tradizione della cultura italiana adatta alla commedia, che dura tuttora. La commedia, noi italiani, ce l’abbiamo un po’ nel sangue: lo si vede nel cinema, nel teatro, in tante manifestazioni culturali. E la commedia è una base ideale per le trame del fumetto disneyano.

Il Topolino degli anni 60-70 era una grande vetrina dell’industria italiana del giocattolo. Pagine e pagine di pubblicità di aziende piccole e grandi. Adesso le aziende di giocattoli sono scomparse. Cosa altro è cambiato in questa grande avventura editoriale?

Apprezzo molto il Topolino di adesso perché ha una coscienza maggiore di rivolgersi a un pubblico anche adulto: la maggior parte dei lettori di Topolino, infatti, è costituita da lettori che non si possono definire bambini. La direzione di un tempo del giornale non aveva la consapevolezza, che invece si ha adesso, che molti dei lettori di Topolino fanno parte di un pubblico adulto. Il pubblico di adesso è composto spesso di single, di appassionati di fumetti. Il lettore-tipo non è più, o non è solo, il bambino che lascia sul divano il suo giornalino preferito che poi viene raccolto, e letto, anche dagli altri membri della famiglia.

Cosa c’è di autobiografico nella scrittura di una scenario per Topolino?

Spesso moltissimo. La realtà quotidiana di tutti noi può diventare materiale narrativo, in Topolino io racconto sempre qualcosa di me stesso. Quello disneyano è un fumetto popolare, che riesce a raccontare la sua epoca.

Paperi e topi degli anni 60, 70, 80 sembravano tendere al futuro: si muovevano spesso su aerei, macchine, sommergibili avveniristici, usavano antenati dei computer....

Adesso è cambiato l’immaginario. La sensazione di oggi è che sia stato inventato già tutto, non si inventano più nuove macchine, al massimo si usa software sempre più innovativo. Il fumetto popolare di oggi racconta i personaggi soprattutto “da dentro”, l’esplorazione riguarda se stessi, paperi e topi hanno memoria e coscienza del loro passato. Anche da qui nascono elementi umoristici che possono rivelarsi molto importante. Raccontare l’interiorità e la fragilità dei personaggi è un elemento di narrativa “forte” che, prima, non era così presente nei personaggi disneyani.

Che differenza c’è tra lo scrivere una sceneggiatura per Topolino e una per altri fumetti popolari come Asteriz, Lucky Luke, Tintin?

In realtà pochissima. Gli strumenti utilizzati sono identici: lo scenario struttura, e influenza, l’esito finale. Ci sono solo codici diversi, trasmessi dallo sceneggiatore al disegnatore. C’è da dire, però, che i fumetti disneyani hanno un bisogno specifico. In Disney c’è infatti un patrimonio di onomatopee che sostituiscono intere frasi, e che spesso descrivono uno stato d’animo con una sola parola . L’ «ahr, ahr!»di Gambadilegno, per esempio, non è solo una risata, ma un vero e proprio modo di essere. È un codice che viene replicato e riconosciuto.

Mettere la scrittura al servizio dell’immagine è una prigione o può rivelarsi un moltiplicatore di opportunità?

Ho appena pubblicato un libro per Feltrinelli, “Le entusiasmanti avventure di Max Middlestone e del suo cane alto 300 metri”. Beh, in questo libro si trova a sinistra la mia sceneggiatura, a destra ci sono i disegni dell’illustratore, Sio, che fa apposta a fraintendere tutto quello che sceneggio. Quello che intendo dire, è che anche dal fraintendimento si creano delle nuove storie, nuove opportunità, e quindi mettere la scrittura al servizio dell’immagine non significa necessariamente imprigionarla.

In cosa la sceneggiatura del fumetto si differenzia dalla sceneggiatura per il cinema e per la televisione?

La sceneggiatura del fumetto è l’unica che sia rimasta veramente “di ferro”. Tutto deve essere indicato e dettagliato con estrema precisione. L’unica sceneggiatura in cui si può ritrovare una scrittura simile ai fumetti è quella utilizzata per produrre i videogiochi.

Con il suo rigore di scrittura, ma anche con la sua creatività, il fumetto è un genere letterario che assomiglia a un gigantesco laboratorio sperimentale....

Negli anni 80 si diceva infatti che il fumetto fosse un lay-out di idee, un laboratorio in cui, con costi relativamente bassi, puoi fare storie colossal o storie di tutti i giorni, sperimentando cose che poi “passano” al cinema o alla tv.

Scrivere è un po’ un viaggio di cui non si conoscono le tappe e, a volte, neanche la destinazione. È così anche quando si scrive per il fumetto?

Devo dire che nel fumetto, in realtà, tutto è progettato nei minimi dettagli. È come giocare una partita a scacchi. La scrittura del fumetto è lucida, precisa. Io ho scritto anche romanzi e quindi conosco la differenza tra l’invenzione letteraria, il mistero della narrazione, e il fumetto, che ha una scrittura molto materiale, molto pulita, molto rigorosa.

Da cosa sei stato influenzato nella tua formazione?

Mi è sempre piaciuto raccontare storie, ho anche scritto romanzi, è come se per un pezzo della mia vita avessi cercato la forma migliore di racconto. Il fumetto è la forma perfetta per darmi il controllo della storia, ho trovato che fosse la migliore forma di scrittura per le storie che volevo raccontare.

I tuoi progetti nel cassetto?

Scrivere tanto Topolino, tanto Tex, tanto Diabolik. Il classico fumetto italiano, che io amo molto, e che ha una grande nobiltà.

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