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Un moro un po’ sbiadito

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TEATRO

Un moro un po’ sbiadito

Violento. Elio De Capitani (Otello)  e Camilla Semino Favro (Desdemona)
Violento. Elio De Capitani (Otello) e Camilla Semino Favro (Desdemona)

Perché il Teatro dell’Elfo ha sentito il bisogno di rappresentare proprio ora l’Otello? La tragedia del Moro è, fra i testi shakespeariani, uno dei più popolari, dunque dei più insidiosi, dei più difficili da affrontare. Otello non è il Racconto d’inverno o il Sogno di una notte di mezza estate, che una qualche chiave di rilettura registica la offrono quasi naturalmente. Questa vicenda richiede in partenza un’intenzione, un punto di vista forte non solo sul personaggio, altrimenti cade nel generico, il «mostro dagli occhi verdi» e così via.

Ciò vale a maggior ragione nel caso di una compagnia come quella dell’Elfo, che ha messo a fuoco negli anni un proprio stile, una propria storia interpretativa molto precisa, legata ai richiami del presente, alla possibilità della platea di riconoscersi in ciò che avviene sul palco. Quali sono i richiami del presente che caratterizzano la messinscena a quattro mani firmata da Elio De Capitani con Lisa Ferlazzo Natoli? Due sono, a prima vista, le sue linee portanti, quella dei sospetti, dei pregiudizi che caratterizzano i rapporti inter-etnici, e quella del possesso, della violenza sulle donne, del femminicidio.

La prima vale soprattutto nella parte iniziale, quella in cui Iago illustra le ragioni del proprio odio nei riguardi di Otello, e la società veneziana reagisce alla fuga di Desdemona: qui la traduzione di Ferdinando Bruni - «presto saremo tutti comandati da negri, da stranieri» - ha toni quasi leghisti, un po’ inquietanti: ma questo tema si esaurisce presto, anche perché Otello non è portatore di una cultura diversa, è un integrato. La seconda è la più vivida sul piano emotivo: tutto sembra portare lì, a quello strangolamento ritagliato dalla cronaca quotidiana. Il che, però, era scontato, non suggerisce nulla di illuminante.

Resta solo accennata l’idea di un Otello interiorizzato, calato in un clima vagamente onirico: mentre il primo tempo ha un taglio pacatamente narrativo, il secondo prende risonanze visionarie, come se tutto l’itinerario dalla ragione alla follia che Iago innesca avvenisse non nella mente del Moro, ma in quella dell’uomo tout court. Questa discesa negli abissi della psiche è scandita dalle apparizioni di una figura surreale, un po’ clown bianco, un po’ Pulcinella, e dalla scena di Carlo Sala, il cui elemento principale è un sipario di cellophan che forma come un diaframma fra realtà e fantasie ossessive.

La traduzione di Bruni, parzialmente in versi, mescola alto e basso, ammicca, cita Beckett («il tempo vola quando ci si diverte») e Amleto («Finirò per essere o non essere un po’ più saggio»). Per quanto attiene alla recitazione, De Capitani - con la pelle appena un po’ brunita – vuole ovviamente evitare ogni tipo di atteggiamenti declamatori, ma non sembra sapere bene con cosa sostituirli: mi è parso frenato, un po’ anonimo.

Nessuno, d’altronde, incanta. Federico Vanni è uno Iago niente affatto satanico, un furbastro, più che altro: ma si spiega col fatto che lui punta su delle grevi solidarietà maschiliste, senza troppe sottigliezze dialettiche. Angelo Di Genio e Cristina Crippa fanno quel che devono, con pochi guizzi. La migliore è a mio avviso Camilla Semino Favro, una Desdemona vibrante, inutilmente ribelle al suo ruolo di vittima sacrificale.

Lo spettacolo, accolto con calorosissimi consensi, lancia comunque qualche piccolo segnale d’allarme: la multisala Elfo Puccini, è stato detto più volte, è una vera macchina per creare successi, ha un pubblico entusiasta, si trova in una posizione ideale. Chi lo guida, tuttavia, deve stare attento a non farsene prendere la mano. Il fatto di rivolgersi a un pubblico ansioso in primo luogo di grandi storie non deve impedire di richiedergli un impegno più severo. Il passo fra le scelte “popolari” e la ricerca del facile appagamento può essere molto breve. Il teatro richiede anche sforzo, fatica. E se si prende la direzione sbagliata è poi difficile tornare indietro.

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