Cultura

Dov’è l’origine della modernità?

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LDOMANDA FILOSOFICA PIÙ IMPORTANTE

Dov’è l’origine della modernità?

«Cos’è la realtà?», «Cos’è giusto e cos’è ingiusto?», «Cosa possiamo conoscere?», «Qual è la forma migliore di convivenza umana?», «Chi sono io?», e così via. Come ognun sa (o dovrebbe sapere), le domande filosoficamente più profonde non trovano mai risposte del tutto convincenti. Una volta venute alla luce, infatti, esse non cessano mai di ripresentarsi, in forme solo parzialmente diverse di epoca in epoca, e continuano così a sfidare la capacità di comprensione degli esseri umani. Così, se qualche sapientone vi venisse a dire che la risposta a qualcuna di quelle domande è ovvia, potete stare certi che o bluffa oppure non sa di cosa parla.

È però legittimo chiedersi se tra queste domande ce ne sia una più importante delle altre. Uno dei maggiori filosofi viventi, John Searle, in proposito non ha dubbi. A suo giudizio, la domanda più importante che la filosofia contemporanea si trova davanti è: «Come si può conciliare la concezione di noi stessi in quanto agenti creatori di significati, liberi, razionali e così via con un universo che consiste interamente di brute particelle fisiche, sprovviste di mente, significato, libertà e razionalità?». Dalla risposta che diamo a questa domanda, discendono tutte le altre.

Nella sostanza, molti filosofi contemporanei la pensano come Searle, anche se non tutti si esprimerebbero in modo tanto crudo. Il punto è che, in sostanza, la domanda di Searle ne generalizza un’altra, che fu posta nientemeno che da Immanuel Kant nella terza antinomia della Critica della Ragione Pura. In quell’opera il grande filosofo di Königsberg si chiedeva come fosse possibile conciliare due affermazioni che singolarmente prese ci paiono certe, ma che tra loro sembrano contraddittorie. La prima affermazione (la «tesi» della terza antinomia) è che noi possiamo agire esercitando il libero arbitrio e quando lo facciamo siamo responsabili per l’azione che compiamo. La seconda idea (l’«antitesi»dell’antinomia) è che la facoltà del libero arbitrio è incompatibile con il carattere deterministico delle ineludibili leggi naturali scoperte da Newton.

Il problema di Kant è generalizzato da Searle, perché oltre al libero arbitrio, anche le altre prerogative fondamentali che ci autoattribuiamo (la coscienza, la moralità, la razionalità, la capacità di dare significato alle azioni e alle cose) sembrano incompatibili con il mondo naturale, così come esso ci viene presentato dalla scienza. In effetti, al di là della sicumera di Searle, è innegabile che il problema generale della collocazione del mondo umano nel contesto del mondo naturale sia centrale per la filosofia contemporanea – almeno nel caso in cui non si prendano facili scorciatoie, come quella di chi nega legittimità alla visione scientifica del mondo o quella di chi, a contrario, sostiene che questo problema è illusorio perché la scienza, e solo la scienza, spiega tutto ciò che c’è da spiegare.

Come gli altri genuini problemi filosofici, anche il problema di Searle ha una lunga storia, che risale a ben prima di Kant. Secondo qualcuno, il suo termine a quo è rappresentato dalla filosofia di Descartes che rispondeva al problema del posto dell’umano nel mondo naturale con il suo rigido dualismo: la mente, con tutte le sue prerogative, prima tra tutte la libertà, si colloca, secondo Descartes, in un mondo ontologicamente irrelato al mondo della materia. Una soluzione molto drastica, che però si rivelò subito insoddisfacente, perché è evidente che le due presunte sostanze (il pensiero e la materia), lungi dall’essere irrelate, interagiscono causalmente l’una con l’altra. Sarebbe però errato iniziare la genealogia della frattura tra l’immagine umana e l’immagine scientifica del mondo con la filosofia cartesiana. L’origine di questa scissione, infatti, si ritrova nel grande pensiero italiano del Rinascimento e della prima età moderna, e in particolare nei suoi due maggiori protagonisti: Niccolò Machiavelli e Galileo Galilei.

Il Segretario fiorentino fu il primo a offrire, a inizio Cinquecento, una compiuta visione secolarizzata, in cui l’agire umano si emancipava dai vincoli di un’etica religiosamente informata e, più in generale, da un quadro metafisico in cui tutto era tenuto assieme dalla provvidenza divina. Nella visione machiavelliana si saldavano in modo originale temi aristotelici (la rilevanza delle idee di virtù e di autonomia, l’eternità del mondo, il valore dell’astrologia) ed epicurei (il ruolo della contingenza nell’esercizio della virtù politica, la prossimità tra esseri umani e animali). E in questo modo Machiavelli plasmava un’antropologia naturalistica che avrebbe avuto grande influenza nei secoli successivi. In quell’antropologia, però, la razionalità (nella sua accezione politica) e la normatività (nel suo senso metastorico) continuavano a giocare un ruolo cruciale.

Quando, però, un secolo dopo, Galileo comprese che le categorie matematiche con cui si studiavano i moti celesti erano applicabili anche sulla Terra, e in questo modo fondava la fisica moderna, la dimensione del reale si restrinse alle cosiddette «qualità primarie» dei corpi, quelle quantitative e relazionali, mentre le «qualità secondarie» (qualitative e modali), e con esse le categorie modali e normative, venivano cancellate dal mondo reale. Come Husserl scrisse in Krisis, capolavoro della sua maturità, con Galileo iniziava la separazione tra il mondo della percezione e quello della scienza. Una separazione che avrebbe portato alla terza antinomia di Kant e alla questione prioritaria della filosofia contemporanea di cui parla Searle.

Machiavelli fondò dunque la moderna concezione dell’umano, Galileo la moderna concezione della natura: la modernità, con la sua costitutiva scissione tra mondo umano e natura, ha le proprie radici saldamente piantate in Italia. Di questo, e degli sviluppi che ne seguirono, discuteranno tra pochi giorni, in un grande convegno che si terrà a Boston presso le università di Harvard e di Tufts, alcuni dei massimi esperti mondiali.

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