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Una «leva» per capire il mondo

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Scienza e Filosofia

Una «leva» per capire il mondo

Agli Uffizi. Giulio Parigi, affresco del 1599-1600, Firenze, Galleria degli Uffizi, stanzino delle Matematiche
Agli Uffizi. Giulio Parigi, affresco del 1599-1600, Firenze, Galleria degli Uffizi, stanzino delle Matematiche

La matematica, diceva il grande teorico dei numeri André Weil, non è nient’altro che un’arte, «una specie di scultura in un materiale duro e resistente, come certi porfidi». Ma per quale motivo quest’arte che si esercita su una materia mentale abbia così tanto successo nel descrivere la materia fisica, il mondo naturale, resta un mistero. «L’irragionevole efficacia della matematica», la chiamava il fisico teorico Eugene Wigner, preceduto nelle sue riflessioni sull’argomento dal cognato Paul Dirac, il teorizzatore dell’antimateria, il quale parlava di una «qualità matematica della natura», non suscettibile di una spiegazione logica. In effetti, è difficile capire perché, per esempio, le sezioni coniche (ellissi, parabole e iperboli), frutto dell’ingegno di un matematico alessandrino del III secolo a.C., Apollonio di Perga, si ritrovino nelle orbite dei corpi celesti; o perché i numeri immaginari (radici quadrate di numeri negativi), introdotti nella seconda metà del Cinquecento dal bolognese Raffaele Bombelli per «la certezza delle regole generali», siano alla base della meccanica quantistica e della struttura della materia; o ancora, perché la teoria dei gruppi, concepita dal ventenne Évariste Galois poco prima di morire in duello, sia la chiave per comprendere le particelle elementari e le loro interazioni.

Un ulteriore esempio di questa «irragionevole efficacia» ci è stato fornito nelle scorse settimane dall’Accademia Svedese delle Scienze, che ha assegnato il premio Nobel per la fisica del 2016 a tre ricercatori britannici, David Thouless, Michael Kosterlitz e Duncan Haldane, per i loro studi sulle fasi topologiche della materia. La topologia, usando un’espressione del suo fondatore, Henri Poincaré, è la «geometria dei disegnatori maldestri». Immaginiamo di voler riprodurre delle figure geometriche e di non avere le capacità di un Giotto. Per quanto ci impegneremo, i cerchi saranno deformati, le dimensioni cambieranno, le proporzioni verranno meno. Ma, a meno di non aver introdotto stranezze, le figure che avremo disegnato saranno «topologicamente equivalenti» agli originali. La topologia si occupa di quelle caratteristiche delle figure che rimangono invariate quando si effettuano trasformazioni che modificano lunghezze, angoli e forme, ma non comportano strappi, tagli o incollature. Si tratta di una geometria globale, non locale, “qualitativa”, non metrica, che non distingue tra un pallone da calcio e uno da rugby, ma distingue tra una ciambella e un krapfen, perché la prima ha un buco, il secondo no, e non c’è modo di trasformare con continuità l’una nell’altro. Il numero di buchi presenti in un oggetto è uno dei più semplici invarianti topologici; un altro è il numero di avvolgimento, che indica quante volte una curva chiusa gira attorno a un punto. Kosterlitz, Thouless e Haldane hanno scoperto che numeri come questi, apparentemente ben lontani dalla realtà fisica, si annidano nella materia, caratterizzano certi suoi stati e permettono di spiegare numerosi fenomeni. Tra le discipline matematiche, la topologia è approdata alla fisica relativamente in ritardo, ma si è fatta subito valere, e il Nobel di quest’anno la incorona.

Non bisogna però pensare che i fisici trovino sempre già pronti nel grande magazzino delle matematiche gli attrezzi adatti al loro lavoro, né che il rapporto tra matematica e fisica sia unidirezionale, fatto solo di applicazioni della prima alla seconda. Succede spesso che il fisico debba costruire da sé gli strumenti matematici di cui ha bisogno – strumenti di cui la matematica, successivamente, si appropria, generalizzandoli e rendendoli rigorosi. È il caso della funzione delta – una stranissima funzione a spillo, infinita in un punto e nulla in tutti gli altri –, inventata da Dirac nell’ambito della sua sistemazione formale della meccanica quantistica. Quando il matematico francese Laurent Schwartz la vide per la prima volta, ne rimase «disgustato». Poi, però, decise di prenderla sul serio e costruì attorno a essa un nuovo fecondissimo ramo della matematica, la teoria delle distribuzioni. La morale, nelle parole dello stesso Schwartz, è che «è un bene che i fisici non aspettino una giustificazione matematica prima di procedere con le loro teorie».

Tra gli esempi di problemi matematici stimolati dalla ricerca sperimentale uno dei più divertenti prende il nome da Joseph Plateau, un fisico belga che nella seconda metà dell’Ottocento effettuò una lunga serie di esperimenti sulle bolle di sapone. Se immergiamo un filo metallico chiuso in acqua saponata, si forma una pellicola che è la superficie di area minima avente il filo come contorno. Plateau osservò che qualunque filo metallico, indipendentemente dalla sua forma geometrica, delimitava almeno una pellicola di sapone. Ciò portava a credere che esistesse sempre una superficie minima, ma questa congettura non poteva evidentemente essere provata su base empirica e richiedeva una dimostrazione matematica. Il problema di Plateau è di straordinaria difficoltà e ha impegnato per decenni molte grandi menti. Lo risolse nel 1931 un matematico statunitense, Jesse Douglas, il quale dimostrò che per ogni curva chiusa non intersecantesi esiste sempre almeno una superficie minima topologicamente equivalente a un disco. Per questo lavoro Douglas ricevette nel 1936 la prima medaglia Fields, l’equivalente del Nobel in campo matematico.

Ma l’aspetto più sorprendente della relazione tra la matematica e le scienze naturali è l’uso di procedure e metodologie fisiche per scoprire nuovi fatti matematici. Questa pratica ha un’origine remota. Nel III secolo a.C. Archimede applicò in maniera ingegnosa la meccanica alla geometria, con risultati ragguardevoli: stabilì i volumi e le aree di molte figure utilizzando la legge della leva, cioè immaginando di equilibrare figure diverse sui piatti opposti di una bilancia. Oggigiorno, non è la meccanica a venire in aiuto della matematica, ma una delle teorie fisiche più sofisticate, la teoria delle stringhe, che ha contribuito a risolvere svariati problemi di topologia e di geometria. Le stringhe sono definite in uno spazio-tempo a 10 dimensioni, e le 6 dimensioni che eccedono quelle ordinarie sono organizzate in spazi di un tipo particolare, introdotti dai matematici Eugenio Calabi e Shing-Tung Yau ben prima che le loro applicazioni fisiche venissero alla luce. Molte delle proprietà degli spazi di Calabi-Yau sono state scoperte dai fisici. Una di esse, un indice topologico legato proprio al numero di buchi presenti nello spazio, è in relazione con un dato fisico, il numero di tipi di particelle elementari – un’altra manifestazione della stupefacente pervasività della matematica nel mondo naturale.

Quale sarà l’evoluzione di questa storia? La matematica e la fisica continueranno a procedere su binari paralleli con continui interscambi, com’è successo finora, o dobbiamo aspettarci uno scenario diverso? Secondo Dirac le strade finiranno per convergere: le due discipline tenderanno un giorno a unificarsi, con il risultato che «ogni settore della matematica pura avrà un’applicazione fisica e la sua importanza in fisica sarà proporzionale al suo interesse in matematica». C’è però chi immagina un esito opposto. Forse, come ha ipotizzato il fisico teorico John Archibald Wheeler, giunti al fondo di tutto, scopriremo che non ci sono leggi matematiche, bensì una miriade di meccanismi elementari, da cui la matematica emerge come un epifenomeno. Ma siamo evidentemente nel campo delle illazioni: il segreto del Gran Vecchio, per dirla con Einstein, è ancora ben nascosto.

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